I licenziamenti nel 2015 di 49 autisti da parte di Arcese Trasporti sono illegittimi in quanto la motivazione addotta – pesante calo del fatturato industriale dell’azienda – è risultata falsa e quindi non giustificava il provvedimento di mobilità. È il contenuto della sentenza del giudice del lavoro presso il Tribunale di Rovereto, emessa lo scorso 12 gennaio, che ha dato ragione ai sindacati dei lavoratori licenziati, disponendo di conseguenza il risarcimento, per ciascun autista, di 20 mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre a tutte le spese legali e per la consulenza tecnica, per svariate centinaia di migliaia di euro. I conducenti licenziati non sono stati però reintegrati nei posti di lavoro, come previsto dalla legge Fornero, e su questo specifico punto i sindacati hanno annunciato il ricorso in appello.
Da parte sua Arcese ha contestato pesantemente la sentenza di condanna e ha minacciato di spostare la sede legale dell’impresa in Lombardia, anche se ha rassicurato, in un comunicato stampa, che questa eventuale misura «riguarderebbe esclusivamente aspetti di carattere legale e sarebbe privo di qualsiasi ricaduta occupazionale sui lavoratori trentini».
LA VICENDA
Il tutto ha inizio nel luglio 2015, quando a quasi 50 autisti del Gruppo di Arco venne dato il benservito con la spiegazione che Arcese soffriva di una «pesante e grave diminuzione del fatturato industriale, pari a circa 40 milioni di euro nel quadriennio 2009-2012» , con la conseguente necessità di ridurre il proprio personale viaggiante in organico presso la sede trentina e le altre del Nord Italia.
I sindacati confederali Filt/Cgil, Fit/Cisl, Uilt/Uil e la Rsu, convinti della motivazione, si accordarono con la proprietà, accettando prima la cassa integrazione per i dipendenti di circa 5 mesi (da febbraio 2015 a luglio 2015) e poi il licenziamento collettivo delle 49 unità lavorative.
IL RICORSO
A questo punto gli autisti, attraverso le organizzazioni sindacali di base (S.B.M. e Cobas), hanno impugnato tutti i recessi, contestando le motivazioni della direzione aziendale a giustificazione del processo di espulsione. La causa di lavoro è arrivata in giudizio alla fine di maggio 2016 e il giudice Michele Cuccaro ha subito voluto vederci chiaro sui reali motivi fornite dalla direzione aziendale per i licenziamenti, nominando un CTU (consulente tecnico d’ufficio) per analizzare la situazione economico-finanziaria di Arcese.
LA PERIZIA E LA SENTENZA
La relazione finale del perito ha delineato una situazione diversa da quella di crisi prospettata. «(La perizia) non ha mostrato – dice la sentenza – alcuna evidenza e conferma del calo di fatturato lamentato dalla convenuta (Arcese- ndR)». Al contrario «si era: verificata una significativa crescita del fatturato nel quadriennio 2009/12; interrotto nell’anno 2011 l’andamento negativo del risultato operativo; e limitato ai soli anni 2009 e 2010 il risultato finale negativo». Inoltre «la contrazione del fatturato previsto per l’anno 2014 di quasi il 10% costituisce un dato poco significativo, dal momento che è riferita esclusivamente al dato previsto per l’ultimo quadrimestre 2014 in un documento interno ad uso aziendale e non rappresentando una contrazione rispetto al fatturato dell’anno precedente». Inoltre anche la perdita di quasi 800.000 euro al giugno 2014 e una perdita gestionale di 2,5 milioni di euro «trovano riscontro unicamente in documenti aziendali interni inizialmente non prodotti e non verificabili in modo oggettivo da parte di soggetti esterni all’azienda o attraverso il confronto con il bilancio civilistico e, per di più, riportanti dati riferibili anche alle società trazioniste slovacca, polacca e rumena».
In sostanza, la comunicazione di crisi dell’azienda era «infedele e fuorviante, dal momento che ha enfatizzato solo i dati negativi». I sindacati, quindi, non hanno potuto valutare la reale salute dell’azienda alla data di avvio della procedura che ha poi portato all’espulsione. Da qui l’illegittimità dei licenziamenti. «Arcese ha mentito sapendo di mentire – commentano i sindacati – continuando a ridurre personale nelle sedi nazionali e incrementando quello delle società estere, soprattutto in Polonia, Slovacchia e Romania, e ottenendo però i finanziamenti pubblici per lo scalo intermodale ‘fantasma’ di Mori, con oltre 12 milioni di euro». Punto su cui però – va precisato – il giudice di primo grado non ha voluto indagare.
LA REPLICA DI ARCESE
Dura la risposta dell’azienda trentina a una sentenza che giudica evidentemente ingiusta. Le perplessità derivano, secondo Arcese, «dalla perfetta buona fede dell’Azienda che ha gestito le crisi degli anni passati con percorsi condivisi con sindacati, territorio e Ministeri, offrendo ricollocamenti per evitare perdite di posti di lavoro». In una nota stampa la proprietà sottolinea che lo stato di crisi era già stato annunciato alle OO.SS. e alle RSU a settembre 2014 e che il numero di licenziamenti, dopo numerosi confronti e incontri presso il ministero dello Sviluppo Economico, era sceso sensibilmente dagli inziali 120 ai 49 di luglio 2015. «Tale progressiva riduzione – si legge – è stata possibile sia perché sono stati accettati alcuni dei ricollocamenti interni offerti dall’Azienda, sia perché alcuni autisti hanno usufruito della possibilità di un’uscita volontaria con incentivazione all’esodo».
Sulle 49 persone licenziate Arcese precisa che «a luglio 2015 venti si erano accordate con l’Azienda avanti alla conclusione della prima fase processuale, accettando la chiusura del rapporto di lavoro a fronte dell’erogazione di un incentivo all’esodo», mentre per le altre 29 che chiedevano la reintegra in servizio «in due diverse date (marzo e luglio 2015) era stata offerta una ricollocazione interna a parità di salario con altre mansioni». La richiesta di reintegra sarebbe stata del tutto inutile se i ricollocamenti interni fossero stati accettati, dice ancora il comunicato, «ma i ricorrenti hanno insistito, senza guardare alla non sostenibilità di tali decisioni».
Inoltre «la sentenza dice chiaramente che le tesi fantasiose per cui Arcese avrebbe delocalizzato o avuto soldi pubblici illegittimamente, sono completamente al di fuori di questa causa e anzi è stato provato il contrario».
Ancora, Arcese contesta che tutti i passaggi sindacali non siano stati condivisi con tutte le organizzazioni, da ottobre 2014 a febbraio 2015: «La RSU nel caso specifico era a maggioranza Cobas, con i coordinatori esterni che, presenti a Roma in occasione dell’accordo, erano in costante contatto telefonico con la loro delegazione aziendale. L’impugnazione del licenziamento è quindi un disconoscimento esplicito della loro stessa attività all’interno delle RSU».
Non corrisponde a verità, secondo l’azienda, nemmeno l’incompletezza e l’enfatizzazione delle informazioni riguardanti lo stato di salute dell’Azienda, «spiegato nelle innumerevoli riunioni, sindacali e tecniche, effettuate in quei mesi», riunioni in cui alla fine «si parlava solo di ricollocamenti interni ad Arcese, rifiutati da tutti i ricorrenti».
In particolare un controllo ministeriale estremamente dettagliato, che ha preso in considerazione una mole di dati molto più ampia di quella portata a processo, avrebbe «riscontrato la completa fondatezza delle informazioni rese nella procedura di mobilità». Arcese si sente da tempo «perseguitata» dalla giustizia, sia perché «condannata in altro caso ad assumere a tempo indeterminato quasi 90 contratti a tempo determinato, caso più unico che raro in Italia», che per la causa in esame, «proposta e supportata dalle stesse persone che hanno partecipato a tutte le fasi di questa crisi e hanno firmato l’accordo ministeriale sui licenziamenti (RSU/Cobas» e in cui si proponeva una reintegra quando erano già stati offerti ricollocamenti per tutti, con un vantaggio economico per i lavoratori «del tutto simile a quello che avrebbero percepito accettando gli incentivi proposti dall’Azienda».
Sull’affermazione dei sindacati per cui «la lotta contro Arcese non finisce qui», la proprietà commenta di non essere «un corpo estraneo, una mucca da mungere o un cancro da estirpare, ma un robusto cavallo che trascina il pesante fardello del fare impresa». E il licenziamento “di massa” dei 49 lavoratori rappresenterebbe «solo il 4% dell’organico italiano di Arcese», mentre le assunzioni dal 2015 al 2018 sono state di 259 persone, di cui 80 nel solo Trentino.
Infine sugli accordi con la Provincia, Arcese afferma di «non percepire da oltre 20 anni contributi pubblici, fondi a cui tutte le aziende trentine hanno potuto avere accesso in passato, e che di conseguenza non hanno costituito un trattamento di favore riservato. Né ne abbiamo ricevuti in misura maggiore rispetto alle leggi; e per il lease back – non contributo a fondo perduto, ma finanziamento a tassi agevolati – abbiamo sempre restituito puntualmente quanto percepito».
LO SPOSTAMENTO DELLA SEDE LEGALE IN LOMBARDIA
Dopo la sentenza, il presidente Matteo Arcese ha prospettato che la sede legale dell’azienda verrà trasferita da Arco di Trento ad altro sito di Arcese, probabilmente in Lombardia. Una dichiarazione che ha suscitato allarme tra i dipendenti regionali, preoccupati di possibili risvolti occupazionali in negativo. Ma la multinazionale ha buttato acqua sul fuoco. «Riguardo all’organico trentino nulla cambia – si legge nella nota stampa – men che meno la fiducia sulla professionalità delle risorse locali, un asset strategico e da salvaguardare, e l’impegno per una continuità occupazionale».