Non c’è pace sul mercato del petrolio. La crisi bancaria che si era manifestata con il fallimento della banca americana Svb e con il salvataggio di Credit Suisse da parte di UBS, aveva fatto scendere le quotazioni del greggio a livelli che non si vedevano da tempo, al di sotto degli 80 dollari al barile. Una situazione evidentemente poco gradita alle principali potenze petrolifere raccolte nell’Opec+ e guidate dall’Arabia Saudita, che assolutamente senza preavvisi hanno annunciato domenica un taglio a sorpresa della produzione di oltre 1,16 milioni di barili al giorno. La ragione ufficiale è di quelle generiche: mossa «precauzionale», finalizzata a stabilizzare il mercato. Ma non si tratta ovviamente di una notizia positiva, visto che l’economia dei paesi occidentali sta combattendo da tempo l’inflazione e sta subendo pesantemente l’aumento dei tassi di interesse (che in qualche modo sono all’origine della stessa crisi bancaria).
I tagli di Arabia Saudita (500 mila barili al giorno), Iraq (211 mila), Emirati Arabi Uniti (144 mila), Kuwait (128 mila), Algeria (48 mila) e Oman (40 mila) inizieranno a maggio e proseguiranno fino alla fine dell’anno. Peraltro, seguono un altro taglio di due milioni di barili al giorno stabiliti lo scorso ottobre, adottato sempre per far risalire i prezzi. La Russia, che fa parte del cartello Opec+, ha affermato che si limiterà a procrastinare un taglio già esistente di 500.000 barili al giorno fino alla fine del 2023, descrivendo la decisione come «un’azione responsabile e preventiva».
L’Opec ha alzato le sue previsioni sulla domanda mondiale di petrolio per il 2023 a febbraio, stimandola in crescita di 2,3 milioni di barili al giorno rispetto a una media dell’anno di 101,87 milioni di barili al giorno. Ma le aspettative iniziali di una domanda più alta nella seconda metà dell’anno, sarebbero messe ora in discussione dalle prospettive di un’inflazione ancora elevata e da tensioni recessive. E quindi – sostengono gli analisti – la mossa dell’Opec avrebbe una funzione preventiva proprio nel caso in cui la riduzione della domanda nella seconda metà del 2023 sia maggiore rispetto al previsto. Decisione che peraltro non ha tenuto in alcun modo conto delle richieste degli Stati Uniti che avevano chiesto addirittura il contrario, proprio scommettendo su un effetto congiunto di un incremento dei consumi e della definitiva ripartenza post-pandemica della Cina.
Fatto sta che stamattina in Asia, dove l’apertura dei mercati è avvenuta in anticipo rispetto all’Europa, il prezzo di un barile di Wti americano è salito del 5,74% a 80,01 dollari e quello di un barile di Brent del Mare del Nord è salito del 5,67% a 84,42 dollari. Facile prevedere che la stessa cosa avverrà anche in Europa nelle prossime ore e finirà per condizionare anche le quotazioni dei carburanti e, purtroppo, per creare un altro piccolo focolaio di inflazione.