Negli ultimi giorni ho letto con attenzione l’articolo di Massimo Marciani e, soprattutto, i contributi di chi ha voluto commentarlo. Con Marciani di queste conversazioni ne facciamo molte, e chi mi conosce sa che non ho paura di dare “picconate” quando serve. Non per demolire, ma perché credo che solo attraverso la verità si possa costruire qualcosa di solido.
A differenza di altri, non sono arrivato in questo settore per caso, per un’opportunità di carriera o per un ritorno economico. Ci sono arrivato per scelta. Dopo anni da manager e imprenditore, ho sentito l’esigenza di un percorso diverso: lavorare per la collettività. Un grande uomo di questo comparto, Silvio Faggi, mi ha trasmesso la passione per il trasporto e la logistica e mi ha fatto comprendere la strategicità di questo settore per il nostro Paese. Così ho deciso di dare il mio contributo, convinto che qui si giochi una parte fondamentale della competitività italiana.

Ecco perché non vi racconto dove sono d’accordo con Massimo, ma preferisco soffermarmi su dove ho altre idee e altre interpretazioni sui temi che ha sollevato. Non per alimentare un dibattito fine a sé stesso, ma per stimolare azioni concrete. Perché a parlare (o scrivere) sono bravi tutti: la differenza la fanno i fatti.
In FIAP, dal primo giorno, ho ripetuto un concetto semplice: se vogliamo ottenere risultati diversi, dobbiamo fare cose diverse. È la filosofia che ci guida, come accade in iniziative – tra l’altro portate avanti proprio con Massimo – come l’Osservatorio TCR: il primo rating internazionale di affidabilità nel trasporto e nella logistica, pensato per creare un ecosistema virtuoso dove il prezzo è una variabile, ma non l’unica. Non sarà la soluzione a tutti i problemi, ma è un tentativo concreto di fare le cose in modo diverso.
Non è sempre colpa degli altri
Diciamolo chiaramente: la scelta di un fornitore basata unicamente sul prezzo non è un problema esclusivo del trasporto e della logistica. È una logica diffusa in moltissimi altri settori.
La frammentazione delle imprese? I contributi “a pioggia”? La carenza di personale? Il numero eccessivo di associazioni? Sono questioni comuni a gran parte dell’economia italiana.
Continuare a dare la colpa agli altri non serve a nulla. Si rischia di cadere nella trappola della lamentela cronica, spostando sempre il problema. La verità è che ogni imprenditore è artefice del proprio successo. Decide lui come farsi trattare da clienti, fornitori e collaboratori. Decide lui se accettare o meno le regole del mercato. Quando avevo la mia impresa informatica, i clienti mi pagavano puntualmente? Guardavano oltre al prezzo? Consideravano che avessi tutti i dipendenti regolarmente assunti e bilanci in ordine? No. La maggioranza – tra cui molti degli imprenditori che oggi rappresento – guardava solo il prezzo. Ma non sono mai sceso a compromessi pur di lavorare: ho sempre cercato chi apprezzava davvero il mio lavoro.
La responsabilità è dell’imprenditore
Non è colpa del committente se paga poco o in ritardo: è l’imprenditore che accetta quelle condizioni. Non è colpa delle troppe associazioni, spesso controllate da chi rappresenta i clienti o costruite ad personam: è l’imprenditore che sceglie di aderire senza nemmeno leggere lo statuto. Non è colpa delle norme che mancano o degli intermediari: è l’imprenditore che accetta qualsiasi compromesso pur di lavorare.
È vero: il contesto conta. Le regole, la politica, la burocrazia incidono pesantemente sulla vita delle imprese e possono facilitare o ostacolare la crescita. Ma proprio per questo diventa ancora più importante che l’imprenditore sviluppi consapevolezza e capacità di muoversi in questo scenario, invece di subirlo.
La domanda è inevitabile: siamo di fronte a veri imprenditori o a dipendenti travestiti?
Fare impresa significa creare ricchezza per sé e per i propri collaboratori. Se questo non accade, forse è il momento di chiedersi se si sta sbagliando strategia o se si è adatti a fare impresa. Non c’è nulla di male: non tutti devono essere imprenditori.
Un settore che merita orgoglio e visione
Basta lamentele. Basta rincorrere riconoscimenti o appoggi esterni. Il nostro è un settore straordinario, fatto di donne e uomini che ogni giorno garantiscono l’approvvigionamento di materie prime e portano le eccellenze italiane in tutto il mondo.
Dobbiamo ritrovare l’entusiasmo, l’orgoglio e la voglia di fare. Non dobbiamo “accreditarci” presso chi rappresenta la committenza per sentirci legittimati o, peggio, chiedere sostegni economici alla politica. Gli imprenditori veri vivono del proprio lavoro e crescono grazie ad esso.
Questo dobbiamo dire ai nostri imprenditori: basta alibi, servono azioni.
Tre ingredienti per il futuro
Gli imprenditori, quelli veri, hanno bisogno, secondo me, di pochi ingredienti, ma essenziali:
- Verità – guardare in faccia i problemi senza scuse.
- Sogno – avere una visione che vada oltre la sopravvivenza quotidiana.
- Crescita personale – investire in competenze, perché saper fare impresa si impara.
Se torniamo a crederci, questo settore ha davanti a sé un futuro di indipendenza, forza e credibilità. Il resto saranno solo chiacchiere.