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Se l’umanità non trova parcheggio

La prima notte trascorsa nella cabina di un camion non la si scorda mai. È un concentrato di felicità, di euforia, di passione che svanisce con l’alba, quando le tenebre se ne vanno e rimani da sola in quell’area desolante, priva di tutto quanto serve a una persona per sentirsi tale. Chi l’ha vista una volta, quando immagina che lì trascorrerà un terzo della propria vita lavorativa, vorrebbe soltanto scappare. E chi la guarda da fuori se ne tiene alla larga. Ma se invece che un luogo di sosta fosse concepito come un contesto di socialità? Una tesi su cui lavorare

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Scivolavo nel buio profondo di una (ormai distante) notte estiva di tanti anni fa, quando scendevo gli Appennini passando per Roncobilaccio. La «vecchia», come si direbbe oggi. E mentre scivolavo il cronotachigrafo segnava il tempo ritmico delle ore progressivamente risucchiate dall’asfalto. Quella sarebbe stata la mia prima notte fuori. Dopo lo scarico sarei rientrata vuota, pronta per le prese del giorno dopo.

All’epoca guidavo un “piccolo” Iveco Eurocargo, ma la sua cabina mi sembrava comunque grande, con la branda e i cassettoni. Le luci arancioni e deboli dell’area di servizio di Firenze Nord illuminavano soffusamente la mia motrice, facendone risaltare solo la sagoma. Era tutto perfetto, come in un film. Anche le tende chiuse, a coprire pure la targa con il mio nome sul parabrezza, sembravano coperte rimboccate. Come una bambina dentro il suo castello di cuscini, io ero felice. Si sa, però, che la felicità è fatta di attimi. Di momenti spesso notturni che svaniscono con le chiare luci dell’alba. Ma in concreto cosa si porta via la notte? Si appropria totalmente degli entusiasmi o ci lascia qualcosa in ricordo? Se i sogni servono a questo, a ricordare una notte trascorsa a cullare la gioia di un attimo, quando negli autisti questo momento di fugace euforia lascia spazio all’incubo?

Edward Hopper, People in the Sun, 1960

La felicità saluta con il mattino

Come in ogni metamorfosi, c’è un luogo responsabile e custode del cambiamento: per le farfalle è il baco, per gli autisti le aree di sosta. Un autista passa un terzo della propria vita lavorativa dentro un’area di servizio. La mancanza di una cultura del personale viaggiante è un pesante sovraccarico che gli autisti faticano a sopportare. Infatti, le aree di servizio sono pensate per chi fa della sosta qualcosa di fugace e veloce. Un passaggio necessario, ma mai obbligato. I costi eccessivi di un’alimentazione non bilanciata e di pessima qualità, l’allestimento di scaffali coloratissimi e carichi di prodotti «extra» rispetto alla quotidianità, ci fanno capire che il cliente target di chi pensa all’offerta è il vacanziere, non di certo il lavoratore viaggiante.

Allo stesso modo, l’assenza di servizi igienici adeguati (o la loro cura precaria), la mancanza di docce o quella di spogliatoi trasformano il momento della cura della propria persona in una sofferenza. Ed ecco che i camion si fanno carico, sempre di più, oltre che del peso delle merci, anche dell’assenza di quelle infrastrutture che, in una società civilizzata, dovrebbero rappresentare il minimo sindacale. Così, per colmare questa lacuna ci si organizza con il fai-da-te: fornelli dentro ai cassettoni, docce nei semirimorchi, taniche d’acqua appese come lavandini. Davvero nessuno si accorge di questa privazione di umanità?

Un luogo senza tempo

Una privazione che passa anche, e forse soprattutto, dall’assenza di considerazione degli autisti come persone. Se mi avessero detto che quella mia notte fuori sarebbe diventata la mia normalità in futuro, avrei perseverato nel mio lavoro? Cosa mi sarebbe mancato più di tutto? Oggi lo so: il tempo. Meglio, il tempo dell’essere umana. Perché oggi so che il tempo, come sostiene Oliver Burkeman, non è una nostra risorsa spendibile. Noi siamo il tempo, perché la nostra vita non è altro che un susseguirsi di momenti presenti. E allora, come si fa a esistere come persone all’interno di spazi e di luoghi che sembrano portarci fuori e lontano dal nostro tempo e dal nostro spazio? Nelle aree di sosta siamo privati di ogni attività umana per eccellenza: la cura, lo svago, l’ozio, l’interazione interpersonale, la curiosità.

Abbandonati a noi stessi, ci facciamo compagnia con le nostre cabine che assorbono tutta la nostra esistenza. Rinchiusi in lamiere colorate con interni decorati e qualche nome appeso qua e là in cerca di identità. Stiamo lì e aspettiamo che qualcuno si accorga di noi. È così che si perde il senso di tutto, la possibilità di condividere una passione e di farla crescere anche negli altri, perché per quanto, oggi, possiamo ovviare alla socialità attraverso i network e la tecnologia, il contatto umano rimane ancora indispensabile.

E se la rendessimo social?

In un lavoro fatto di ritmi serrati scanditi dal carico e scarico, che non consentono uno scambio interpersonale tra autisti e magazzinieri, l’unico momento di pausa concesso è quello delle aree di sosta. Per questo dovrebbero diventare aree sociali, dove poter trascorrere anche alcune ore fuori dalla cabina del nostro camion, in compagnia di altri colleghi per uno scambio di idee amichevole, con magari un’area relax, una sala tv e – perché no – una palestra dove poter fare attività fisica che, per chi trascorre ore e ore alla guida, sarebbe un toccasana per la salute.

Il problema, quindi, non si esaurisce con l’ipotizzare nuovi investimenti, ma richiede anche di imprimere un cambio di rotta a una mentalità divenuta incapace ormai di reggere il peso delle esigenze e di conquistare una nuova prospettiva affinché questo mestiere possa ancora avere un futuro. Le merci viaggeranno su gomma per sempre, nonostante l’intermodalità e la logistica sempre più efficiente, ci sarà quindi sempre bisogno di qualcuno che le guidi a destinazione. E non si può non tenerne conto. Perché, se noi facciamo un servizio necessario e di primaria utilità, restiamo comunque invisibili?

L’area come luogo di comunità

Se non si pensasse più al trasporto come a un’occupazione usurante, snervante, in solitudine e poco dignitosa, forse sarebbe molto più ricercata dalle nuove generazioni e la carenza di autisti si ridimensionerebbe. Un adeguamento salariale sarebbe opportuno, ma rispetto ad altri lavori certamente è più remunerato. Ma a quale prezzo? Notti lontane dalla propria famiglia, viaggi lunghi ed estenuanti, fatica fisica, impigrimento mentale…

Serve un cambio di passo, di mentalità, una metamorfosi culturale. Perché chi viaggia ha bisogno di comfort, di condivisione, di comunità. E la comunità si può trovare anche nelle aree di sosta, anzi, forse è l’unica occasione per dare un senso ai nostri viaggi, una piccola pausa, uno stacco, un momento di umanità che ci farebbe evadere dal nostro infinito tempo trascorso sul grigiore dell’asfalto. Ed ecco che, forse, molti di noi potrebbero tornare a sognare un lavoro in grado di farci sentire felici come in mezzo al castello di cuscini.

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