
Caro Simone, il tuo ragionamento pone l’attenzione su una domanda che tocca tutti, prima o poi, a prescindere dal ruolo che abbiamo nella società: «Ma chi me lo fare?». Ce lo chiediamo nei momenti di frustrazione che emerge in momenti come quello che ci hai raccontato e che ci mette di fronte all’indifferenza del sistema. Forse, ci pone anche davanti al senso di impotenza, in quanto all’improvviso ci fa sembrare quello sforzo, che fi no a poco prima dava senso alle nostre giornate, totalmente privo di valore.
Purtroppo, quello che purtroppo mi racconti non è effettivamente un caso isolato: è la realtà di molti. Il sistema che chiede a una persona di rinunciare alla propria dignità personale e alla propria identità è frutto di una logica di mercato che considera il costo del trasporto come un servizio aggiunti vo a qualcos’altro (la «spedizione gratuita» ci dice niente?). Di fronte a questo sistema, il dubbio è legittimo. Vale davvero la pena battersi per il settore, per il benessere dei conducenti, per condizioni migliori? Non sarebbe più semplice accettare che le cose vadano così e andare avanti? Ed è qui che la domanda va ribaltata. Non è «chi ce lo fa fare» a lottare per il cambiamento, ma «chi ce lo fa fare» di arrenderci a questo sistema? Chi ce lo ha fatto accettare come normale che il trasporto sia ridotto a un costo da abbattere? Che la vita di un conducente valga meno di una consegna veloce? Che il lavoro si misuri solo in profitto e non in dignità?
Forse il punto è proprio questo: ognuno di noi, con le proprie azioni (come le tue: fare una passeggiata, porre attenzione al proprio benessere psicofisico) può contribuire a spostare il confine tra ciò che è accettabile e ciò che non lo è. Il cambiamento non nasce solo dai grandi gesti, ma anche dai piccoli rifiuti quotidiani: scegliere di non piegarsi a certe condizioni, di pretendere di più, di alzare lo sguardo e dire che no, questa non è la normalità che accetti amo. In questo modo, facendolo sempre di più, definiremo gli standard minimi di accettazione perché questo lavoro sia definito come tale e ribadiremmo – come sostiene la nostra Costituzione – che fare impresa non significa solo inseguire il profitto, ma anche contribuire all’«utilità sociale», senza «recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Di tutti , anche di quel filippino. E allora la domanda iniziale trova la sua risposta: è proprio per questo che lo facciamo. Per non arrenderci. Perché se ci arrendiamo noi, chi resta a cambiare le cose?
Per sbrogliarti scrivi a: l.broglio@uominietrasporti.it

                                    
