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Cassazione: costi carburante deducibili solo se documentati

La Cassazione ha stabilito che, in caso di contestazione da parte del Fisco, è l’impresa di autotrasporto a dover dimostrare con documentazione dettagliata che le spese per il carburante siano effettivamente collegate all’attività svolta. Non basta, cioè, un’inerenza «generica» (es. fatture senza indicazione delle targhe)

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Oggi ci occupiamo delle spese carburante e della loro deducibilità. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione (n. 13674 del 22 maggio scorso) ha infatti ribadito che, in tema di imposte sui redditi e Iva, in caso di contestazione – anche solo ipotizzata da parte dell’Agenzia delle entrate – dei costi dedotti dall’imprenditore, è questi che ha l’onere di comprovare, con adeguata documentazione, la piena correlazione all’attività d’impresa.

In altre parole, non basta che i costi siano per loro natura astrattamente connessi all’attività perché siano detraibili. La sentenza è stata segnalata sul sito Fisco.oggi, la rivista online dell’Agenzia delle entrate.

IL FATTO

La fattispecie prende il via quando l’Agenzia delle entrate emette alcuni atti di accertamento nei confronti di una società di trasporto molisana, negando il rimborso delle spese per carburanti in quanto documentate da fatture generiche e senza l’indicazione della targa dei veicoli riforniti. Per il Fisco, in altri termini, le fatture risultavano prive del requisito della «certezza» e quindi non potevano essere utilizzate per la deduzione dei costi e la detrazione dell’Iva.

La società si è opposta adducendo che le spese erano comunque inerenti e correlate alla tipologia di attività di autotrasporto svolta. Questa argomentazione difensiva veniva accolta dai giudici tributari di primo e secondo grado, che avevano dichiarato l’illegittimità della pretesa dell’Agenzia delle entrate, ravvisando l’automatica inerenza delle fatture. In sostanza: la società svolgeva attività di autotrasporto, per cui l’acquisto di carburante risultava «intrinsecamente legato all’attività svolta».

Malgrado la doppia pronuncia sfavorevole, il Fisco ricorreva ai giudici di Cassazione, affermando che la natura della spesa sostenuta dalla società non potesse integrare in sé i requisiti di inerenza e certezza, che sarebbero stati inoltre giustificati con fatture irregolari e appunto senza indicare la targa dell’automezzo cui il carburante era destinato.

LA DECISIONE

E qui la svolta. La Corte di Cassazione accoglie il ricorso dell’Agenzia, fornendo chiarimenti sui criteri che stanno alla base della suddivisione dell’onere della prova. Innanzitutto, la Corte Suprema respinge l’eccezione dell’azienda che voleva l’inammissibilità del ricorso per violazione del principio di «doppia conforme». Non spaventatevi, si tratta semplicemente del caso in cui una sentenza di secondo grado conferma la decisione di primo grado in fatto e in diritto, per cui la decisione di entrambi i gradi rappresentano un unico corpo decisionale. Ora – dicono gli Ermellini – il principio per il quale non è possibile proporre ricorso in Cassazione nel caso di doppia conforme di merito è sicuramente applicabile anche al giudizio tributario, ma riguarda esclusivamente la «proposizione di vizi di motivazione» (ovvero difetti nella spiegazione fornita dal giudice per giustificare la sua decisione) e non le censure di «violazione di legge» (ossia l’impugnazione di un provvedimento giudiziario che si ritiene viziato da un’errata applicazione o interpretazione di una norma giuridica), come nel caso concreto.

Dice la Cassazione che «l’Agenzia delle Entrate ha comprovato in atti che le contestazioni non riguardano semplicemente l’inerenza di parte dei costi sostenuti dalla società contribuente per l’acquisto di carburante all’attività di impresa (inerenza astrattamente sussistente, come chiarito anche dalla sentenza impugnata), ma coinvolgono anche la certezza stessa del costo, sia perché alcune fatture non riportano l’indicazione della targa dell’automezzo che ha usufruito del carburante acquistato, sia perché i consumi di carburante non sono compatibili con gli effettivi chilometri percorsi dagli automezzi nella disponibilità della controricorrente”.

E chi deve provare che i costi siano connessi all’attività d’impresa? Il contribuente, altrimenti sono indeducibili e indetraibili. Questo sulla base di un principio giurisprudenziale assodato per cui, in tema di imposte dirette ed IVA, «il contribuente è onerato di comprovare, con idonea documentazione, l’inerenza dell’operazione all’attività d’impresa, con la conseguenza che, laddove la fatturazione sia priva degli elementi che consentano di dimostrare la riferibilità di dette spese ai mezzi strumentali impiegati per l’esercizio dell’impresa, va esclusa la deducibilità dei costi medesimi e la detraibilità dell’IVA».

In cosa hanno dunque sbagliato i giudici di merito? Nel fatto che non hanno tenuto conto delle contestazioni dell’ufficio tasse sull’effettiva utilizzazione del carburante acquistato per l’esercizio dell’attività d’impresa.

LE CONSEGUENZE

Pertanto, il ricorso dell’Agenzia delle entrate è stato accolto, con cancellazione della sentenza impugnata e rinvio al giudice di secondo grado in una diversa composizione per un nuovo esame.

Va peraltro sottolineato come le regole di ripartizione della prova nel processo tributario hanno sempre suscitato un grande dibattito, che si è fatto più intenso con la riforma dell’art. 7 del Dlgs n. 546/1992 e con l’introduzione del comma 5-bis. Ci sono due posizioni al riguardo. Da un lato c’è la tesi della dottrina, minoritaria, che nella nuova disposizione vede la nascita di un onere della prova rafforzato e oltremodo gravoso a carico dell’amministrazione finanziaria (addirittura si parla di un’abrogazione implicita delle disposizioni speciali in tema di presunzioni legali tributarie). Dall’altro c’è la tesi maggioritaria, confermata dalla Cassazione, che ha chiarito come la nuova disposizione non si ponga in contrasto con la preesistente applicabilità delle presunzioni legali, che impongono al contribuente la prova contraria.

Inoltre, anche per le presunzioni semplici (artt. 2697 e 2729 Codice civile e norme in tema di accertamento tributario), la prova presuntiva è sempre ammessa a fondamento della pretesa del Fisco. Quindi, se la presunzione di non inerenza o di incertezza dei costi risponde ai requisiti della precisione, gravità e concordanza secondo il prudente apprezzamento del giudice, non si potrà negare – anche in ossequio alla regola processualistica di vicinanza alla prova – l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente.

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