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La patente a 18 anni? Un vuoto da colmare

Lo ammetto: quando ho sentito per la prima volta parlare di patenti superiori a diciotto anni ho storto il naso. Anche perché nutro una repulsione naturale verso chi affronta i problemi con lo stesso approccio con cui si infila un tappo. Poi, ci ho pensato e ho immaginato che, se il conseguimento del permesso di guida si accompagnasse ad altro, se fosse parte di un progetto formativo più completo, potrebbe portare molto lontano. E allora, perché non provarci?

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Da tempo, a livello europeo, si discute sulle possibilità di colmare un vuoto, quello causato da una carenza notevole di autisti. Dopo l’essere ricorsi ai contributi per scontare il prezzo della patente e al decreto flussi per tentare di reperire manodopera straniera, non mi meraviglia che si sia arrivati all’idea di abbassare l’età del conseguimento della patente a diciotto anni, anziché ventuno.
Inizialmente, lo ammetto, non ero molto convinta di questa idea. Così come, in realtà, non mi piacciono le iniziative volte a tamponare un’urgenza, senza che parallelamente venga messo in atto un progetto che migliori la situazione sul lungo periodo.
Ho provato sulla mia pelle, nella mia brevissima esperienza da istruttore di scuola guida, la totale inesperienza di chi si avvicina al volante per la prima volta (e sì, mi sono chiesta se fossi anche io così impacciata). Se le persone chiamate a gestire il traffico delle nostre strade stando a bordo di un veicolo pesante avessero tutte l’esperienza di un novellino spaesato, alla fine non potrebbero che produrre disastri e la durata media della patente sarebbe equivalente alla mia esperienza nel mondo delle autoscuole: poco meno di un anno.

Non si aspetta senza fare nulla

È altrettanto vero, però, che i diciotto anni sono lo spartiacque tra il presente e il futuro e arrivare a quell’età senza un progetto può essere molto pericoloso, ma arrivarci sapendo di dover aspettare altri tre anni, senza fare nulla nel mezzo, è di certo distruttivo.
Se a diciotto anni vuoi diventare autotrasportatore, ma sei costretto ad aspettare di compiere ventuno anni, inevitabilmente ti avvicinerai al mondo del lavoro tramite altre vie che, con altissima probabilità, ti metteranno nelle condizioni di racimolare esperienze senza un effettivo ritorno di investimento o ti allontaneranno dalla tua idea iniziale.
Tre anni di esperienza, nel mondo lavorativo, non sono pochi. Soprattutto quando sei così giovane, perché automaticamente ti poni su un piano di maggiore competitività rispetto chi, a vent’anni, è appena uscito dall’università.
E allora, mi sono detta, forse non è un male abbassare l’età della patente a diciotto anni.
Ma in che modo? E qui la risposta non è secondaria, perché mai e poi mai vorrei vedere ragazzi sfruttati per tamponare un’urgenza e in questo modo prosciugati del loro futuro.

Un passo indietro per guardare avanti

La questione allora è: come si fa a trasformare un’idea, l’anticipato di una stagione, in un progetto a lungo termine?
E se il conseguimento delle patenti, diventasse un vero e proprio percorso formativo professionale, alla stregua del diploma di laurea o degli Istituti Tecnici Superiori?
Se, usciti dalle superiori, si iniziasse una formazione di due anni sul trasporto e la logistica che però non si fermasse solamente alla formazione di disponenti e gestori di magazzino, ma contemplasse anche le conoscenze per diventare veri e propri operatori del settore?
In questo modo, nel tempo effettivo che serve per conseguire le patenti di categoria superiore (legate comunque all’ottenimento della patente di categoria B e, di conseguenza, alla perdita comunque di un anno), i giovani verrebbero formati su tutte le materie inerenti al settore.
Esattamente quelle previste per il conseguimento delle patenti di categoria, affrontate però in maniera più approfondita e dettagliata (perché – diciamolo – il programma ministeriale è claudicante) e integrate con l’insegnamento della lingua inglese professionale, allo scopo ultimo di inserire i giovani in un contesto europeo e di dotarli di quei fondamenti di logistica, utili a dare loro, qualora subentrino necessità aziendali o personali, la possibilità di potersi reinserire nel mondo del lavoro senza dover abbandonare il settore (come stava per succedere a me, dopo la maternità).
Del resto, se un autista dovesse decidere di scendere dal camion per qualsiasi ragione, cosa andrebbe a fare? Al massimo finirebbe in un magazzino a guidare qualche transpallet, se non ha il patentino per i carrelli elevatori, dovendo (nuovamente) partire dal basso per arrivare a ricoprire una posizione compiacente.

I vantaggi del vuoto reso rinnovo

In questo modo si otterrebbero più effetti:

  • un’integrazione nel programma formativo italiano, migliorando così anche la percezione che l’opinione pubblica ha degli autisti, rilevando dei professionisti qualificati;
  • la garanzia di un proseguimento di carriera, in maniera simile a quanto avviene in tantissime altre professioni, che di fatto equivarrebbe a un titolo spendibile nell’intero mercato del lavoro, analogamente al diploma di laurea;
  • la preparazione di un personale qualificato e veramente formato (a maggior ragione se si utilizzasse il periodo formativo della Cqc – oggi una semplice ripetizione del programma della patente C – come tirocinio in azienda) che permetterebbe alle imprese di aumentare la loro competitività e, magari, di investire maggiormente nella logistica, quanto mai strategica per l’intera economia.

Se, quindi, al posto di colmare un vuoto per recuperare un’urgenza, cercassimo di colmare un vuoto generazionale?
Se provassimo a riempire di professionalità un settore che ne ha sempre più bisogno colmando al tempo stesso un vuoto formativo?
Se questo vuoto venisse riempito di competenze, sogni, aspettative e possibilità per giovani animati da un desiderio che rischia di svanire in quel vuoto temporale?
Certo, tutto ciò non sarebbe comunque sufficiente a riempire gli altri vuoti del nostro settore, ma avere nuove visioni, nuove energie e nuove leve potrebbe aiutarci a colmare anche vuoti culturali, comunicativi e generazionali.

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