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Bloccare un altro veicolo con il proprio è un reato

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Ostruire e bloccare con il proprio veicolo il passaggio di un altro veicolo costituisce il reato di violenza privata. Lo ha stabilito la Cassazione, con sentenza n. 5358/2018, confermando la condanna nei confronti di un uomo che con il proprio mezzo aveva ostruito la strada per impedire a un altro mezzo di ripartire.

Il caso di specie era nato da una discussione tra due conducenti sorto proprio perché l’uno aveva parcheggiato in modo tale da impedire il passaggio dell’altro. Il giudice, investito della controversia, ha condannato il primo contendente per violenza privata e minaccia in danno dell’altro. Sentenza, questa, poi ribadita in appello. A quel punto la parte soccombente ricorreva in Cassazione, lamentando la mancanza di motivazione in ordine agli elementi (oggettivo e soggettivo) della violenza privata, giacché dalla pronuncia impugnata non si rinvenivano le ragioni per cui sarebbe stata realizzata l’ostruzione della sede stradale, né l’intenzionalità dell’ostruzione stessa, che a suo dire si era protratta soltanto per il tempo del diverbio insorto tra i due.

Quanto al reato di minaccia, l’uomo sosteneva che era stata ingiustamente attribuita valenza delittuosa a un’espressione innocua pronunciata senza intenzioni minatorie.

Ma la Cassazione non ha accolto questi motivi. Rispetto al reato di violenza privata, ha ribadito che, ai fini della sua configurabilità, «il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione. Pertanto, anche la condotta di chi ostruisca volontariamente la sede stradale per impedire ad altri di manovrare nella stessa, realizza l’elemento materiale del reato in questione».

Per cui, non vi è dubbio che ciò sia avvenuto nel caso di specie, visto che l’imputato aveva impedito all’altro conducente di riprendere la marcia per circa 7-8 minuti (stando alla testimonianza dei presenti) successivi al termine della discussione.

Per la Suprema Corte, per considerare colpevole di violenza privata qualcuno, sotto il profilo soggettivo, «è sufficiente la coscienza e volontà di costringere taluno, con violenza o minaccia, a fare, tollerare od omettere qualcosa, senza che sia necessario il concorso di un fine particolare: il dolo è, pertanto, generico. Ne consegue che il fatto stesso di impedire ad altri di transitare sulla strada pubblica, o di riprendere la marcia, integra l’elemento soggettivo del reato in questione».

Altrettanto infondato è il motivo relativo alla minaccia. Le parole pronunciate dall’imputato infatti («tanto sta faccenda non finisce qui, t’aspetto quando finisci de lavorà, cussì te la faccio vedé io, te faccio na faccia come un tamburo») avevano valenza minatoria, posto che contenevano la rappresentazione di un male, il cui effettivo verificarsi dipendeva dalla volontà dell’agente.

La Cassazione, in ordine alla richiesta di proscioglimento, avendo i giudici di merito omesso ogni pronuncia sul punto, ha annullato la sentenza impugnata con rinvio al giudice competente.

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