Nome est omen, dicevano gli antichi Romani: il nome è un presagio. Come non pensarci di fronte a Luca Brunelli, titolare dell’Azienda agricola Martoccia, che a Montalcino produce il celebre Brunello intestato alla cittadina senese. A Montalcino, Brunelli c’è nato cinquant’anni fa, da una famiglia che – come molte altre della zona – negli anni Sessanta aveva messo in secondo piano il podere, per dedicarsi a un’altra attività. Anche Luca avrebbe dovuto occuparsi di motori, ma negli anni Novanta piantò gli studi di ingegneria meccanica per acquistare i primi due ettari e mezzo di vigna e partì per un’avventura che oggi lo ha portato a possedere 25 ettari di terreno: bosco, oliveti, ma soprattutto dieci ettari di vigneti nell’area di Montalcino (più altri quattro nel vicino territorio del Montecucco), cinque dei quali iscritti alla DOCG Brunello di Montalcino. E una produzione di qualità che affianca il vino più rinomato d’Italia: Rosso di Montalcino DOC, Poggio Apricale IGT, Chianti DOCG, IGT Luca, un Chianti (rosso, perché il vino è rosso, si dice in Toscana) con il nome di Brunelli che è stato anche – e a lungo – vicepresidente nazionale di CIA-Agricoltori italiani ed esporta i suoi vini in tutto il mondo a cominciare dagli Stati Uniti. «Che per noi sono un mercato importante», precisa, «che assorbe un 40% della nostra produzione e un terzo del nostro fatturato». E dunque i dazi al 15% anche sui vini, come è scritto nell’accordo concluso ieri in Scozia dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e dalla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, colpiscono l’azienda, come tutto il comparto, in modo diretto.

«La questione dei dazi è un elemento che nel futuro caratterizzerà il nostro lavoro. Intanto una tariffa del 10% è già ufficialmente in vigore. E la gran parte degli importatori americani hanno chiesto di dividere quel 10% con i produttori. È successo anche a me con due terzi dei miei importatori americani. Abbiamo trattato: a chi abbiamo concesso il 2, a chi il 3, a chi nulla. Insomma, una tariffa del 10% non fa grandi danni. Il vero problema è che questi dazi si sommano a una caduta del dollaro e finché non ci saranno certezze, avremo un’oscillazione dei prezzi con forti differenze tra quelli iniziali e quelli finali. Insomma, quello di cui sono più preoccupati gli importatori americani è l’andamento dell’economia USA. Per questo molti di loro stanno cercando di portarsi in pancia più vino possibile. Ma è un palliativo, non una soluzione».
Perché è un palliativo?
Prima di tutto perché accumulano uno stock che comunque è destinato a esaurirsi, anche perché alcuni vini hanno delle preparazioni che non permettono di essere pronti entro i primi di agosto, poi a settembre arrivano le nuove annate e il ciclo ricomincia. C’è anche da dire, poi, che non tutti gli importatori possono permettersi lo stoccaggio. Anche per il fatto che ormai siamo tutti abituati al just in time e non tutti sono disposti ad affrontare i costi di magazzinaggio, tanto è vero che gli importatori che vogliono fare stock per fronteggiare questa fase si stanno consorziando. Ma è anche difficile che importatori di vino con un portafoglio importante possano fare magazzino per tutte le etichette che gestiscono. Qualcuno certamente avrà la forza di farlo, ma non tutti. Dei miei importatori, secondo me, solo un 30% può farcela: in tutti gli Stati Uniti su una dozzina di miei importatori, solo quattro o cinque si stanno organizzando per importare in questo periodo quantità più elevate del normale. Ma gli altri stanno continuando ad operare come hanno sempre fatto, senza fare magazzino, soprattutto nelle grandi città come New York. Avete presente quanto può costare un magazzino a New York?
Ma un aumento dei prezzi finali non può favorire la concorrenza dei vini americani o quelli di altri paesi?
Non posso pensare che Trump abbia deciso i dazi per favorire i vini americani. La loro produzione interna è molto bassa e molto costosa. Perciò non credo che ci sia un gran bisogno di riequilibrare il mercato del vino, penso invece che la contrapposizione sia su altre partite, il che comunque crea una fibrillazione. Quanto ai prodotti di altri paesi – penso al Sud America – forse sono facilitati rispetto ai nostri, ma vedremo se i nostri vini sapranno resistere.
In caso di rallentamento delle esportazioni negli USA, avete valutato l’ipotesi di spostare un eventuale esubero di produzione su altri mercati?
È assolutamente una delle strade che stiamo valutando, anche perché noi già esportiamo in tante parti del mondo, proprio per evitare situazioni di dipendenza. Può essere la soluzione? Non lo so. Anche perché non è facile spostare una forte quantità di produzione. La ricerca in questa direzione sicuramente continuerà e ci sarà anche un’attenzione maggiore per questa opportunità, però questa riguarderà di più aziende che lavorano solo con gli USA. Noi la ricerca di altri mercati l’abbiamo già fatta e continueremo a farla a prescindere. Anzi, se riuscissimo a far aumentare le nostre percentuali su altri paesi saremo più che soddisfatti, anche perché stiamo acquisendo nuovi terreni e piantando nuovi vigneti, per dare spazio a nuovi vini e a quantità superiori che arriveranno nel prossimo futuro, perciò tutto quel che riusciamo ad ottenere in più dal mercato, anche a prescindere da questi dazi, ci sta più che bene.
Il commento del presidente dell’Unione italiana vini
FRESCOBALDI: «UN DANNO DA 317 MILIONI PER IL NOSTRO VINO, MA SALIRA’ SE IL DOLLARO NON SI RIAPPREZZA»
Anche Lamberto Frescobaldi, presidente dell’Unione italiana vini, si è detto molto preoccupato. Intervistato dal Sole 24 Ore ha parlato del rischio che a essere penalizzato sia «almeno l’80% del vino italiano. Il danno che stimiamo per le nostre imprese è di circa 317 milioni di euro, cumulati nei prossimi 12 mesi, mentre per i partner commerciali d’oltreoceano il mancato guadagno raggiungerà quasi 1,7 miliardi di dollari. Il danno salirebbe a 460 milioni di euro qualora il dollaro dovesse mantenere l’attuale livello di svalutazione».
L’unico aspetto positio, che sottolinea, è la fine dell’incertezza. «Ora sarà necessario – ha concluso – che la filiera si assuma il mancato ricavo per ridurre al minimo il ricarico allo scaffale».