Quando una banca o una società finanziaria entra in default interi comparti economici tremano. Ma quando una grande compagnia di navigazione, la settima compagnia al mondo per il trasporto container è sull’orlo della bancarotta, quante e quali conseguenze si innescano? È la domanda che sorge spontanea dalla situazione che si sta vivendo alla Hanjin, la compagnia di trasporto marittimo coreana, gravata da 5,4 miliardi di indebitamento netto. La scorsa settimana c’era stato un tentativo disperato della società, affidato a un piano di risanamento presentato ai creditori e in primis alla Korea Development Bank, l’istituto che risulta essere il maggior creditore della compagnia, ma la risposta è stata negativa e il progetto di risanamento giudicato «insufficiente». Hanjin aveva avanzato richiesta di ulteriore liquidità per più di 357 milioni di dollari, il necessario per portare avanti l’attività, peraltro nel momento più caldo del mercato, quando le stive si riempiono in vista delle festività natalizie. Ma i creditori non ci credono e pensano che quei soldi andrebbero soltanto a tappare qualche buco e non invece a innescare un piano di rilancio. Di conseguenza la stessa banca coreana ha garantito risorse fino a ieri, 4 settembre, per poi chiudere definitivamente i cordoni della borsa.
LO STOP ALL’ATTRACCO NEI PORTI
A quel punto il consiglio di amministrazione di Hanjin, preso atto della situazione, ha chiesto l’amministrazione controllata. Ma lì si è innescata paradossalmente un’accelerazione della crisi, perché le 150 navi portacontainer della compagnia in giro per il mondo sono diventate agli occhi dei diversi porti come una sorta di appestato da tenere lontano. In molti cioè hanno loro chiuso le porte dell’attracco, nella convinzione che la società di trasporto container non fosse in grado nemmeno di pagare le tariffe portuali. È accaduto subito a Yangshan (Shanghai) e a Singapore. Ma poi le navi Hanjin bloccate sono diventate dieci soltanto in Cina, mentre altre quattro si segnalano a Los Angeles, a Long Beach, a Savannah e, in Europa, a Valencia. Insomma, milioni di dollari di merci attese dai rivenditori, che rimangono ferme al punto di partenza o in mare, senza che le navi riescano a scaricarle. Ma d’altra parte, se anche gli scali portuali dessero l’ok all’approdo, quale azienda di autotrasporto si assumerebbe l’onere di caricare e consegnare un container a una compagnia che non ha più soldi?
LE RIPERCUSSIONI IN ITALIA
Peraltro, la crisi della società coreana ha ripercussioni anche in Italia, dove la Hanjin ha una filiale, a Genova, in cui lavorano a vario titolo poco meno di 90 persone, mentre un’altra ventina sono sparse tra Milano e Napoli. Cosa accadrà è difficile dirlo, ma di certo tutti gli sguardi sono puntati verso Seoul, dove il governo coreano sembra stia spingendo per lavarsi il più possibile i panni in casa, favorendo il passaggio delle parti sane della Hanjin – essenzialmente navi e terminal – alla Hyundai Merchant Marine, l’eterna concorrente che gode di maggior salute, anche se porta i segni di diversi malanni subiti. E comunque nei porti di tutto il mondo serpeggia sfiducia: non è mai successo – si commenta – che una compagnia marittima in crisi, persa la propria credibilità e affidabilità, riesca poi a sollevarsi.
Forse anche per questo nei giorni scorsi anche le altre compagnie, hanno preso le distanze da Hanjin, evitando di caricare le proprie merci sulle navi della società coreana. E questo spaventa: i quantitativi di merce trasportate da Hanjin rappresentano un decimo del volume del Pacifico movimentato negli Stati Uniti. E anche per questo la scorsa settimana, la più grande associazione del commercio Usa, la National Retail Federation, è scesa in campo per chiedere al segretario statunitense del commercio, Penny Pritzker, e al presidente della Federal Maritime Commission, Mario Cordero, di sostenere il governo di Seoul per scongiurare lo stop delle attività della compagnia.
DIFFICILE UN AIUTO DELLE ALTRE COMPAGNIE
Intanto, qualche compagnia alleata di Hanjin si è fatta carico di far posto nelle proprie stive ai suoi container, anche se, proprio il momento di mercato al picco, tutto ciò ha fatto lievitare i prezzi delle spedizioni, schizzati a 1,700 dollari a container da 1 teu per la tratta Cina-West Coast e a 2,400 dollari per quella Cina-East Coast, quando fino alla settimana scorsa erano rispettivamente di 1,100 e 1,700 dollari.
In questo clima di confusione il titolo Hanjin a Seoul è crollato del 29%, la Korea International Freight Forwarding Association ha le linee telefoniche roventi. I proprietari dei container vogliono sapere l’esito delle loro spedizioni e molti cercano strade alternative. Ma siccome siamo come detto in una stagione calda di mercato non è facile trovarne. E allora è facile prevedere ripercussioni, almeno da qui alla fine dell’ann,o in diversi comparti industriali. Incrociamo le dita.