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Il futuro dei biocarburanti. Dodici uomini arrabbiati

Una sentenza già data per certa, ovvero lo stop ai motori termici dal 2035 a favore del «tutto elettrico», all’improvviso viene messa in discussione e adesso le perplessità della transizione vengono a galla. Con i biocarburanti appesi a un futuro ancora tutto da scrivere

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Nell’iconico film 12 Angry Men, maldestramente tradotto in italiano con «La parola ai giurati», dodici uomini arrabbiati – quelli del titolo originale della pellicola – si riuniscono nella stanza di un tribunale per decidere le sorti, apparentemente ovvie, di un ragazzo condannato a morte per l’omicidio del padre.
I dodici giudici, infatti, sono certi della colpevolezza del ragazzo tranne uno che, sulla base di un ragionevole dubbio, metterà in discussione le prove raccolte fino a quel momento, riuscendo così a cambiare le idee degli altri undici giurati dopo un lungo e acceso dibattito.
Sembra quasi di sentire la storia della prematura condanna a morte dei motori termici, dopo che una decisione ormai presa dal Parlamento europeo per decretarne la fine, a vantaggio del «tutto elettrico», viene all’improvviso messa in discussione.
Al punto quasi da essere ribaltata.

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La sentenza

I fatti sono noti. A condannare alla «sedia elettrica» il diesel è stato il Parlamento comunitario, che lo scorso 14 febbraio aveva emanato il regolamento con cui fissava lo stop alla vendita di auto e veicoli commerciali leggeri nuovi equipaggiati con motori endotermici a partire dal 2035, con l’obiettivo di tagliare per quella data le emissioni di questi veicoli del 100% rispetto al 2021. Sembrava tutto deciso. Ma il 7 marzo seguente, giorno in cui il Consiglio europeo avrebbe dovuto approvare definitivamente il regolamento, accade qualcosa. Due Stati manifestano posizioni contrarie. Si tratta, per la precisione, di Italia e Polonia, a cui si aggiunge subito il sostegno significativo di Germania e Bulgaria. A quel punto il Consiglio fa l’unica cosa che può fare in questi casi: mancando l’unanimità, sospende il giudizio e rinvia il voto a nuova data da destinarsi.

Il gruppo degli scettici

Ma c’è di più. Con il passare dei giorni il gruppo degli Stati favorevoli a frenare su certe politiche ambientali cresce di numero. La cosa è apparsa evidente il 13 marzo, quando a margine della seduta plenaria del parlamento europeo a Strasburgo si è tenuto un vertice a cui hanno partecipato i ministri dei Trasporti di tutti i paesi scettici, come ormai vengono definiti quelli che vorrebbero relativizzare un futuro tutto elettrico al 2035, per timore di subire una supremazia tecnologica cinese. Ebbene, al vertice hanno partecipato otto Stati: all’iniziale quartetto si sono aggregati Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia e Ungheria. Anche se il potenziale del gruppo potrebbe arrivare addirittura a dodici (con il sostegno di Spagna, Finlandia, Portogallo e Slovenia). Dodici Stati, dunque, proprio come i dodici uomini arrabbiati nel film di Lumet, uno dopo l’altro conquistati dal contradditorio innescato da quella che si definisce in gergo una «minoranza di blocco». Contraddittorio che ha finito progressivamente per sbriciolare personali convinzioni, instillando nei più il beneficio del dubbio. Insomma, il gioco democratico nella sua più spettacolare manifestazione.

Le ragioni

Ma qual è il «ragionevole dubbio» che ha fatto crollare il capo accusatorio? Lo abbiamo accennato sopra e ha che fare con una questione di competizione internazionale: un’elettrificazione della mobilità creerebbe maggiori chance all’industria cinese a discapito di quella europea. In realtà, le ragioni sono più d’una e toccano varie questioni collaterali: a partire dall’introduzione dell’Euro 7, sui cui tutti i dodici Paesi si sono detti contrari. Perché se il nuovo standard emissivo entrasse in vigore – come previsto – dal 1° luglio 2025 per vetture e veicoli commerciali leggeri e dal 1° luglio 2027 per i veicoli pesanti, non si capisce per quale motivo i costruttori, vedendo all’orizzonte il 2035 come data fatidica dello stop ai diesel, dovrebbero investire importanti risorse senza poi avere un orizzonte temporale sufficiente per poterle ammortizzare. Tant’è che Martin Kupka, ministro dei Trasporti ceco, tra i promotori del vertice, ha definito «irrealistici gli standard Euro 7» puntualizzando poi che lo scopo dei Paesi scettici si muove in due direzioni: per un verso puntare a modificare i target di omologazione ricordati, per un altro mirare a ritardarne l’applicazione per almeno tre anni, arrivando fino al 2028 per vetture e furgoni e al 2030 per i camion.

E i biocarburanti?

C’è poi un altro dubbio in sospeso: che ne sarà dei biocarburanti? Nel senso: ammesso e non concesso che si vieterà la produzione di veicoli alimentati a benzina e gasolio per promuovere solo le soluzioni a emissioni zero (fondamentalmente l’elettrico), che futuro avranno gli altri carburanti alternativi in questa complessa fase di transizione? Il riferimento è in particolare a quelli ottenuti da biomasse, vale a dire da fonti energetiche rinnovabili, che non hanno un impatto a zero impronta carbonica ma che, diciamo, ci vanno quasi vicini. E poi c’è tutta l’importante filiera del biogas su cui l’Italia ha molto investito. Ed è su questo fattore che il nostro Paese ha fatto pressione, lamentandosi non tanto dell’elettrificazione dei veicoli leggeri, quanto che essa debba rappresentare, nella fase di transizione, l’unico percorso per raggiungere le emissioni zero. A questo proposito il ministro per le Imprese e il made in Italy, Adolfo Urso, lo ha dichiarato a chiare lettere: «Se altre tecnologie oltre l’elettrico, come i carburanti biologici e l’idrogeno, dove l’Italia è in posizione avanzata, garantiscono gli stessi risultati in termini di emissioni zero, perché non battere anche queste strade?».

Occhio al 2024

Alla fine di questa storia appare chiaro come tutti i dubbi abbiano portato al rinvio della votazione del Consiglio europeo. E che ora la data da tenere sott’occhio sembra quella del 2024, anno in cui ci saranno le elezioni europee e cambieranno Parlamento e Commissione. E visto il vento che tira, è plausibile ritenere che il fronte dei paesi scettici, già oggi in espansione, possa allargare il proprio perimetro. Magari prendendo ulteriore tempo per affidare la transizione green non solo all’elettrico, ma anche a qualcosa di «bio».


Storia e curiosità
BIOCARBURANTI, COSA SONO?

I biocarburanti sono ottenuti da biomasse, fonti energetiche rinnovabili (a differenza dei carburanti tradizionali che provengono da fonti fossili). Ce ne sono di diversi tipi. Citiamo i principali:
il bioetanolo, ottenuto dalla fermentazione degli zuccheri estratti da piante da zucchero
il biometano, che si ricava dal biogas generato a partire da rifiuti organici urbani, biomasse agricole o agro-industriali
il biodiesel, che si ottiene facendo reagire tra loro attraverso un processo chimico oli vegetali (di colza, di soia, di girasole, di palma, ecc.) con alcol.
Il biodiesel, in particolare, esiste in realtà da fine Ottocento e soltanto negli ultimi decenni è tornato alla ribalta. Un po’ come i motori elettrici. Basti pensare che Rudolf Diesel, quando inventò nel 1892 il primo motore diesel (da cui il nome), utilizzò l’olio di arachidi come combustibile per farlo funzionare. Ma perché questa alimentazione fu abbandonata e poi riscoperta? La risposta è riassumibile in due principali motivi. Il primo è di carattere tecnico: l’olio vegetale ha una viscosità molto maggiore rispetto al gasolio, è più denso, tende a lasciare sedimenti durante la combustione e a otturare gli iniettori. Pertanto già tra il 1920 e il 1930 i produttori di motori diesel cominciarono a modificare sempre più i loro propulsori per sfruttare la minore viscosità del gasolio a scapito dell’olio vegetale. Il secondo motivo è di natura politico-economica e ha a che fare con la contemporanea ascesa del greggio, fattore che fece la differenza. Scelte politiche, forti azioni di lobbing, disponibilità di grandi quantità di greggio e il basso costo del petrolio, infatti, fecero quasi del tutto scomparire l’opzione dei biocarburanti. Solo nell’ultimo decennio le preoccupazioni circa l’impatto ambientale, il costante aumento dei prezzi del petrolio e il timore di un esaurimento dei suoi giacimenti hanno riportato i biocarburanti ad essere presi in considerazione come alternativa ai carburanti di origine fossile. Salvo poi essere messi nuovamente in discussione a favore di un «tutto elettrico» a partire dal 2035.
Nel 2026 si farà il punto
Anche se, va precisato, i biocarburanti (e con essi anche i carburanti sintetici, noti anche come e-fuels) non sono stati esclusi categoricamente dal bando imposto dalla Commissione europea ma è stato lasciato loro uno «spiraglio decisionale», una porta cioè che lascia spazio a possibili aperture anche dopo l’ipotetico spartiacque del 2035. E questo spiraglio ha una data ben precisa, il 2026, ovvero l’anno in cui la Commissione europea dovrà riunirsi per valutare i progressi raggiunti da questa tecnologia nel perseguire l’obiettivo del 100% di riduzione della CO2 considerando l’intero ciclo di vita produttivo.
Ma facciamo chiarezza
Ma entrando più nel dettaglio, quali sono i vantaggi dei biocarburanti? Se si considera per esempio il biodiesel al 100%, quindi non miscelato con il gasolio, dal punto di vista ambientale offre numerosi vantaggi: innanzitutto ha un impatto allo scarico neutro in termini di emissioni di CO2. Le emissioni di monossido di carbonio, stando quanto calcolato dal Comitato Termotecnico Italiano, sono in media inferiori del 40% rispetto al gasolio, mentre la riduzione delle polveri sottili può arrivare al 50%. Un altro vantaggio è economico. I costi di produzione del biodiesel ne rendono competitivo il prezzo rispetto al gasolio. Di contro, il punto dolente del biodiesel sono gli ossidi di azoto. Mediamente si parla di un aumento delle emissioni di NOx del 10-13% (la fonte è sempre il CTI). Inconveniente che può essere contenuto riprogettando i motori diesel e dotando gli scarichi di appositi catalizzatori. Ma la principale critica che di solito si muove al biodiesel riguarda l’impatto ambientale considerando l’intero ciclo produttivo. Impatto che sarebbe tutt’altro che sostenibile, perché la creazione di colture dedicate alla produzione di biodiesel in certi Paesi causa deforestazioni, ma soprattutto, per produrre quantità crescenti di biocarburanti si corre il rischio di entrare in competizione con la produzione di cibo, sottraendo terreni coltivabili utilizzabili per scopo alimentare. Per aggirare questi problemi è allo studio una generazione più avanzata di biocarburanti, detti di seconda generazione, prodotti da biomasse vegetali non coltivate ad-hoc, quindi non in competizione con il cibo, come per esempio gli scarti agricoli e forestali, bucce di semi di girasole, oli esausti, trucioli di legno, microalghe e altri materiali vegetali di scarto, opportunamente trattati e filtrati. Alcuni di questi biocarburanti sono in fase di sperimentazione, altri sono già commercializzabili, come l’HVO (Olio Vegetale Idrotrattato). Molti studi suggeriscono che l’olio vegetale di scarto sia la miglior fonte di olio per produrre il biodiesel. Anzi, come ha spiegato il World Resources Institute, gli unici biocarburanti che potrebbero funzionare sono solo quelli di seconda generazione, perché non prevedono la conversione di terre agricole, eliminando un problema etico e alimentare.
Un futuro da scrivere
Per quanto sia prodotto al 100% con materie prime rinnovabili, l’HVO non ha un’impronta carbonica azzerata, tuttavia, come nel caso di HVOlution (diesel rinnovabile di Eni sbarcato in Italia in 50 stazioni del gruppo), il suo utilizzo riduce le emissioni di CO2 tra il 60% e il 90% nell’intero ciclo di vita. E questo è un aspetto interessante, visto che l’Europa potrebbe lasciare aperto un altro «spiraglio», dando la possibilità alle case costruttrici di commercializzare camion con motori a combustione interna anche dopo il 2040, a patto che le loro emissioni di CO2 siano ridotte appunto del 90% rispetto ai livelli del 2019.

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