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Non solo opere: ecco i veri nodi critici della logistica italiana

Non abbiamo campioni logistici e per un paese importatore di materie prime ed esportatore di prodotti finiti, questa è un autentico freno, perché non ci consente di essere autonomi. Ma Ivano Russo, ad di RAM, fa notare che se è vero che nel Logistic Performance Index siamo al 19° posto, è anche vero che il nostro tallone d’Achille non sono le infrastrutture (parametro su cui siamo al 5° posto affiancati alla Germania), ma la scarsa lentezza ed efficienza dei nostri processi. Quelli che potrebbero essere velocizzati proprio tramite il progetto del PNRR gestito RAM e che partirà nei prossimi giorni

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Il restyling del brand di RAM

Infrastrutture e grandi opere. In tanti finiscono per liquidare il perimetro della logistica all’interno di questa missione. Come se l’imprese del settore lavorassero esclusivamente tramite le infrastrutture e quindi, realizzate queste, il paese potesse diventare improvvisamente solido e competitivo dal punto di vista logistico. È evidente che non è esattamente così. Per fare chiarezza abbiamo chiesto aiuto a Ivano Russo, amministratore unico di RAM, società in house del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti che di recente, per incrementare la propria impronta istituzionale, ha ritoccato il proprio marchio integrandolo con un piccolo tricolore

Allora Russo, qual è il principale elementi di gap competitivo tra l’Italia e gli altri paesi europei?

Il fatto di non avere campioni nazionali. La Germania, cioè, è la Germania nella logistica non solo perché ha le infrastrutture, ma perché ha Hapag Lloyd, ha Lufthansa, Schenker, DB e una serie di operatori come DHL, che rappresentano la «logistics industry», quella che definisco il software della logistica. Ma lo stesso discorso potrebbe essere fatto anche rispetto alla Francia con CMA-CGM o alla Svizzera con Hupac. Il punto, allora, è questo: se noi non strutturiamo una logistics industry nazionale forte, autonoma, competitiva sui mercati globali, il paese farà sempre fatica a imporsi nello scenario del commercio internazionale. Per il semplice motivo che non è autonomo e per un paese che ha un’economia incentrata sull’importazione di materie prime e sulle esportazioni di prodotti finiti – cioè, un’economia molto estero-riferita – non essere autonomo rispetto a chi ti dà le leve per poter fare questo movimento di in&out di materie prime e di merci è un po’ come mettere un cappio al collo alla competitività del paese.

Qualcuno ha sempre letto questa situazione come una conseguenza della scelta di tanta nostra industria di spedire le proprie merci «franco destino». È un’ipotesi credibile?

Quello del «franco destino» è simile al tema «se sia nato prima l’uovo o la gallina». Se parli con l’industria ti dice che sceglie il «franco destino», perché in Italia non ci sono grandi aggregatori che ti consegnano un pacchetto chiavi in mano. E da questo punto di vista è anche vero che fai fatica a immaginare un meccanismo come quello tedesco, dove i primi quattro gruppi produttivi (delle dimensioni di Bosch o di Volkswagen) da soli fanno quasi il 60% della produzione industriale del paese, tra diretto e indotto, e sono incardinati in un meccanismo di relazione con le società della logistics industry con cui si costruisce l’intera filiera. Noi invece facciamo doppiamente fatica perché sul lato industriale oltre il 90% delle nostre imprese ha meno di 15 addetti e fatica anche a fare aggregazione di volumi dal lato produzione, dal lato committenza e dal lato caricatori. Sul versante opposto abbiamo un analogo problema di frammentazione, con un quadro composto da 110.000 imprese logistiche e di queste circa il 94% ha meno di 5 milioni di fatturato e meno di 9 addetti. Quindi, ha numeri da negozio di abbigliamento posto al centro di una grande città, più che da operatore logistico internazionale.

Di fronte a questo scenario cosa può fare RAM?

Innanzi tutto, la cosa più importante è quella di provare a far comprendere al governo e alle istituzioni tutte che questo tema è importante esattamente come quello delle opere pubbliche. Anzi. Se prendiamo il Logistic Performance Index (la misurazione con cui la Banca Mondiale quantifica ogni due anni la competitività della logistica di un paese a livello internazionale; ndrl’Italia è soltanto diciannovesima, superata da paesi che non stanno di certo meglio di noi dal punto di vista infrastrutturale, come per esempio la Spagna. Al contrario, rispetto alla dotazione infrastrutturale, vale a dire a uno dei sei indicatori presi in considerazione per stilare la classifica, l’Italia è tra le prime cinque posizioni, a un’incollatura dalla Germania: l’Italia è a 3.83 e la Germania a 4.2. Su tutti gli altri cinque indicatori, invece, che sono tutti di software (efficienza delle operazioni di sdoganamento, semplificazione dei processi, livello di digitalizzazione, abilità di tracciamento, puntualità dell’arrivo delle spedizioni) l’Italia è un disastro. Allora va benissimo ed è sacrosanta la battaglia per continuare a completare o a realizzare opere efficienti e sul punto non ci sono nemmeno più discussioni: vanno fatte e basta. Però se al tempo stesso non metti mano agli altri cinque asset che rendono competitiva la logistica di un paese, io posso anche lastricare d’oro le opere pubbliche che faccio, ma ho sempre un problema di redditività dell’investimento.

Cioè, rischierebbero di essere fatte per niente?

È un rischio. Anche perché, come è noto, i transiti non generano valore. Per cui è una discussione delicata, comunque da affrontare, perché le infrastrutture sono un bene fisico e quindi, come tutti i fisici, sono beni finiti e non infiniti. Quindi, noi possiamo anche costruire, ma a un certo punto bisognerà affrontare il problema di individuare qual è il mercato target utile per la logistica italiana.

Esistono però dei fondi europei per migliorare i cinque asset ricordati.

Certo. Uno è l’M3C2 del PNRR, che è il progetto che RAM sta coordinando per la digitalizzazione della catena logistica nazionale, uno dei più importanti di tutta la missione del MIT sulla mobilità sostenibile, per il quale vengono concessi 250 milioni per prendere i nodi aggregatori di merci e generatori di dati – quelli pubblici (dogane, capitanerie, porti ecc), ma anche quelli degli infrastructure manager (RFI, ANAS, ASPI) – per metterli in condizione di poter disporre di sistemi interoperabili, che in tempo reale cioè scambiamo informazioni, dati, documenti e procedure. E velocizzare tutto questo sarebbe una grande cosa.

Quando partirà il progetto? 

Noi già ai primi di aprile dovremmo definire dal punto di vista formale il rapporto con il Polo strategico nazionale, che è l’attore partner individuato dall’amministrazione e con cui sta interloquendo a livello formale per realizzare l’architettura ambientale digitale unica per tutto il sistema logistico nazionale. Partito questo primo pezzo di attività, immediatamente dopo, ma nell’arco di settimane, partirà tutto il resto che invece proprio sono la progettazione e l’erogazione dei servizi che dentro questi sistemi sono ospitati Processo molto complesso, anche perché formalmente ci avremmo potuto lavorare dal 22 dicembre, prima non era possibile.

Quando si potranno vedere i primi risultati?

Il target del PNRR è giugno 2024, dove dobbiamo avere il 70% delle reti PSN italiane con sistemi PCS interoperabili con i sistemi centrali. 

Ivano Russo, a destra, indica al viceministro alle Infrastrutture, Edoardo Rixi, il nuovo sito di RAM, mostrato per la prima volta durante il LetExpo a Verona
Daniele Di Ubaldo
Daniele Di Ubaldo
Direttore responsabile di Uomini e Trasporti

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