Vi ricordate la calda estate del 2008, quando le quotazioni del petrolio, sia WTI sia Brent, sfioravano i 150 dollari al barile? Da lì a poco la crisi fece crollare i consumi, sul mercato arrivarono i primi prodotti shale oil, estratti cioè da rocce e bituminose, e i produttori storici, che potevano beneficiare di costi estrattivi molto più bassi, aumentarono la produzione. Così, un po’ il calo della domanda, un po’ il tagliafuori dei sauditi rispetto a questi nuovi attori, fece crollare il prezzo del petrolio sotto i 30 dollari. Ora la festa è finita. E per la prima volta da allora sia i produttori interni all’Opec sia quelli esterni sono d’accordo (lo hanno manifestato a Vienna lo scorso 30 novembre) nel tagliare la produzione di 1,8 milioni di barili giornalieri, con l’obiettivo dichiarato di rialzare il prezzo fin da subito intorno ai 60 dollari e poi, tra circa una decina di mesi, fino ai 70.
Questa visione di medio periodo è la conseguenza di questi anni, dove una produzione superiore alla domanda ha determinato la creazione di scorte. Fino a quando quindi questi stock non saranno smaltiti, difficilmente il prezzo del petrolio potrà galoppare. E tutti ipotizzano che questo processo dovrebbe avvenire da qui all’autunno del 2017, anche se, in virtù dei tagli Opec e di quelli della Russia e di altri produttori esterni (-600 mila barili giornalieri), l’equilibrio tra domanda e offerta dovrebbe essere raggiunto già dalla prossima primavera. Poi ci sarebbero appunto da smaltire circa 300 milioni di barili rimasti invenduti.
Ma già oggi i future sul petrolio segnalano che questo processo si è avviato, visto che quelli per consegna a dicembre 2017 costano meno di quelli per dicembre 2018. Pensate che soltanto lo scorso mercoledì nelle due principali piazze (Ice per il Brent e Nymex per il Wti) sono stati scambiati quasi 4 miliardi di barili di greggio con contratti future. E ovviamente tutto questo ha innescato una febbre di riacquisto di azioni di compagnie petrolifere.
A questo punto cosa ci si deve aspettare? In parte lo abbiamo già detto: i rialzi dovrebbero essere costanti, anche se non improvvisi, almeno per circa un anno. Anche se tutto andrà verificato nei fatti e in particolare nella capacità dei paesi produttori di greggio di tener fede all’accordo sottoscritto la scorsa settimana. E siccome si parla di rialzi a doppia cifra, sarà il caso di ripassarsi la cosiddetta «clausola per l’adeguamento del gasolio», quella contenuta nel comma 5 dell’articolo 83 bis del D.L. 112/2008 in cui è previsto che se il contratto di trasporto si svolge con prestazioni da effettuarsi per più di 30 giorni, la spesa che il vettore sostiene per gasolio (e anche autostrada), così come risulta dal contratto o dalle fatture emesse nel corso del primo mese di prestazioni, va adeguata nel caso in cui il prezzo del carburante (e/o quello dei pedaggi) aumenti di oltre il 2% rispetto al momento in cui il contratto è stato concluso.
Una normativa – guarda caso – nata proprio in quell’infuocata estate del 2008 e che sicuramente in questi ultimi tempi molti committenti avranno usato a loro vantaggio. Adesso, con buona probabilità, è arrivato il momento in cui si innescherà il processo opposto.