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Le pause caffè non autorizzate non giustificano il licenziamento dell’autista

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Un autista di camion che effettua soste non autorizzate per la pausa caffè non può essere licenziato, in quanto tale punizione sarebbe sproporzionata rispetto all’entità del suo comportamento. È questa in sintesi la conclusione a cui è giunta la Corte di Cassazione tramite un’ordinanza (la n. 17065 pubblicata il 13 agosto) che ha rigettato il ricorso con cui un’azienda di autotrasporto chiedeva la riforma della sentenza della Corte di Appello di Milano che aveva dato ragione all’autista licenziato, condannando la stessa azienda a riassumerlo o a versare a suo favore un’indennità monetaria. Per la precisione i motivi per cui l’azienda aveva licenziato il suo dipendente erano due: quello derivante dal furto di otto pallet ritirati da una società terza e quello appunto derivante dall’effettuazione di pause non programmate che avrebbero causato conseguenze dannose all’azienda datrice di lavoro. Rispetto al primo motivo, però, l’autista non negava l’appropriazione, ma riferiva che in realtà alcuni pallet gli erano stati regalati e tra i diciotto trovati sul camion ce n’erano probabilmente anche alcuni (otto per la precisione) di provenienza della società terza. In mancanza di una prova contraria, quindi, tale addebito veniva escluso.

La pausa caffè non è una causa che giustifica il licenziamento

Rispetto invece alle pause caffè, la Cassazione ha confermato il ragionamento della Corte di Appello, che «ha escluso la sussistenza della giusta causa di licenziamento in ragione della lieve entità dell’addebito», evidenziando come non risultassero «provate le gravi conseguenze» denunciate dall’azienda di autotrasporto a seguito delle soste non autorizzate, vale a dire i «costi aggiuntivi per pedaggi autostradali extra, il ritardo nella produzione e nello smistamento logistico del materiale ritirato presso la clientela, l’aggravio economico di ore di straordinario pagate al personale del magazzino». In pratica, mancherebbe in questo caso la giusta causa di licenziamento, perché l’aver fatto una pausa per prendere un caffè sarebbe un motivo «inidoneo, di per sé, a giustificare la sanzione espulsiva sotto il necessario profilo della proporzionalità all’entità della condotta».

Quando le pause compromettono un interesse pubblico

Va comunque detto che non è di per sé la pausa caffè a essere considerata inidonea a diventare giusta causa di licenziamento, quanto il fatto che nel caso specifico l’autore del comportamento fosse un autista di camion. Bisogna infatti ricordare che in altri casi, quando per esempio a essere accusato di eccessive pause caffè era stato personale sanitario o il cassiere di una banca, la Cassazione (sentenza n.7819/2013) aveva ritenuto che laddove ci fosse un interesse pubblico in ballo – quale appunto la salute pubblica – le responsabilità del dipendente divenivano più pregnanti e quindi anche le conseguenze del suo comportamento potevano essere più drastiche, finendo con il giustificare appunto anche il licenziamento.

In un altro caso (sentenza n. 4905/2011), invece, che vedeva coinvolto un carabiniere che effettuava soste in casa per parlare con la moglie da cui si stava separando, la Cassazione sottolineò la differenza tra questo tipo di interruzione del servizio, rispetto a quella finalizzata a prendere un caffè proprio perché quest’ultima serve a corroborare le proprie energie psico fisiche e quindi in definitiva a incrementare le proprie capacità nell’espletare la prestazione lavorativa.

Cosa che effettivamente andrebbe valutata anche nel caso dell’autista di camion che, laddove è esposto a stanchezza o addirittura sonnolenza, ha tutto il diritto di interrompere la guida per riposarsi e per riprendere lucidità.

Se il caffè serve a scacciare la stanchezza

Addirittura, gli stessi giudici di Cassazione (sentenza n. 19170 del 18 maggio 2012) hanno ritenuto la stanchezza dell’autista di camion uno di quei casi di «malessere» che giustifica l’utilizzo della corsia di emergenza in base all’articolo 157 Codice della strada, comma 1, lett. d). Utilizzo che – lo ricordiamo – è interdetto e comunque, anche in caso di emergenza non può superare le tre ore. In questo caso la Corte ha assolto dall’accusa di omicidio colposo un autista che, aggredito dalla stanchezza, aveva parcheggiato il camion nella piazzola di sosta, finendo così per diventare un intralcio per una vettura sopraggiunta che, a causa dell’esplosione di uno pneumatico, le si era schiantata contro. La Cassazione ha precisato che il malessere richiesto dalla legge non è soltanto quello che incide «sulla capacità intellettiva e volitiva del soggetto», ma può pure esprimersi sotto forma di un disagio, anche transitorio, «che non consente di proseguire la guida con il dovuto livello di attenzione, e quindi in esso deve necessariamente ricomprendersi la stanchezza e il torpore che sono premonitori di un colpo di sonno ed impongono al soggetto di interrompere la guida». Quindi una pausa caffè indotta dalla stanchezza non potrebbe mai essere censurata.
Ovviamente stiamo riferendo casi presi in esame dalla giurisprudenza di Cassazione. Poi, cronache quotidiane riferiscono anche episodi in controtendenza. Per esempio, alla fine del 2018 due dipendenti della società che raccoglie i rifiuti in buona parte dei Comuni lagarini, in Trentino, sono stati licenziati perché avevano fatto una pausa caffè giudicata eccessivamente lunga in un periodo di lavoro particolarmente intenso come quello che precede il Natale.

Redazione
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La redazione di Uomini e Trasporti

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