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Gli operatori si spostano sull’intermodale, ma l’offerta non regge la domanda. Il combinato scombinato

Lo sblocco della linea adriatica ha riversato il traffico – soprattutto semirimorchi – anche nel Nord-Ovest, in attesa che si adegui la linea tirrenica. Ma sono ancora in ritardo treni e banchine da 750 metri e ogni difficoltà si scarica ancora sugli autotrasportatori costretti a lunghe attese

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Il 19 dicembre del 2018 dalla stazione di Bologna si è mosso un treno particolare. Aveva a bordo un semirimorchio P400, un bestione alto 4 metri, il primo a percorrere l’intera linea ferroviaria adriatica fino a Bari per imbarcarsi poi verso Grecia e Turchia. A inaugurare il servizio era stata la società di trasporti greca Karassulis, la prima a cogliere l’occasione offerta dalla completa apertura del traforo ferroviario di Cattolica (ampliato e raddoppiato) la cui altezza ridotta aveva impedito fino a quel momento il transito dei giganteschi semirimorchi già diffusi in Europa e, dunque, frenato il flusso di merci su rotaia dai porti pugliesi al centro del continente.
Da quel giorno, in quattro anni l’opportunità è stata colta da molti altri trasportatori che si sono orientati decisamente verso il combinato strada-rotaia, soprattutto sulla linea adriatica, dove l’adeguamento del traforo di Cattolica ha fatto da contraltare a un traffico autostradale sempre più caotico per i lavori di ripristino di ponti e gallerie, i sequestri del guardrail ordinati dalla magistratura e i dirottamenti sulla statale già intasata di suo dal traffico intorno ai centri abitati.

I dati col contagocce

È quello che Giuseppe Acquaro, amministratore delegato di Terminali Italia definisce, con espressione immediata ed efficace, lo «sbottigliamento» della linea adriatica, che – come in un sistema di vasi comunicanti – ha riversato traffico merci su ferro anche su rotaie più lontane. La crescita della produzione della sua società nel 2021 rispetto al 2020 è stata del 21,7% e la movimentazione dell’impianto di Bari è salita del 29,3%, ma anche quelli di Parma e di Bologna hanno registrato un balzo rispettivamente del 38,6% e del 30,8% e perfino Segrate (Milano) è cresciuta di 21 punti percentuali. È un dato parziale, ma significativo, dal momento che Terminali Italia, società del Gruppo FS, gestisce i 12 terminal di Rete ferroviaria italiana (RFI) che movimentano il 40% del traffico: 30 mila treni intermodali l’anno su 75 mila.
D’altra parte, nel deserto dei Tartari delle statistiche italiane – dove tutti attendono il dato più recente, che non arriva mai – non è facile rivestire di numeri le sensazioni che gli operatori più sensibili al polso della situazione avvertono immediatamente. E quando il dato arriva, arriva in ritardo e con il contagocce. Il Conto nazionale dei trasporti assegnava nel 2018 al combinato strada-rotaia l’11% del traffico merci totale ed Eurostat faceva salire (nel 2017) la quota al 13,6%, ma limitatamente al trasporto terrestre (ancora assai poco rispetto al 30% auspicato da Bruxelles). Finché, a metà febbraio, il direttore commerciale di RFI, Christian Colaneri, partecipando un webinar di Fise Uniport, ha annunciato che nel 2021 si è registrata una crescita, in treni/km, del 21% rispetto al 2020 e dell’8% rispetto al 2020.

Oltre la pandemia

Prima della pandemia, cioè. Acquaro conferma: «Avevamo già iniziato a registrare un incremento a gennaio-febbraio 2020, fino a marzo. E durante i mesi di lockdown non c’è stata un’inversione, diciamo che la crescita si è fermata, ma non siamo mai tornati ai valori del 2019. Poi a partire da maggio 2020 i traffici hanno ricominciato ad aumentare. Il Covid in qualche modo ha solo frenato la crescita di Verona – limitata all’8,5% – perché lì si lavora molto per l’automotive e si concentrano i traffici con la Germania, entrambi particolarmente colpiti dagli effetti della pandemia».
E il direttore dell’Interporto di Bologna, Sergio Crespi, intervistato da K44 risponde, il videocast di Uomini e Trasporti e di Trasporto Europa, ha addirittura segnalato una crescita proprio in piena pandemia: «Nel periodo gennaio-ottobre 2020 rispetto allo stesso periodo del 2019, abbiamo registrato un +23,9% di treni e un +10,6% di carri. Quindi, nonostante il periodo di difficoltà legata al Covid, a livello di trasporto ferroviario merci in Interporto, abbiamo numeri positivi e importanti».

I P400 e le linee TEN-T

In effetti, lo «sbottigliamento» della linea adriatica ha attirato nuovi player verso il combinato strada-rotaia. Ma lo sblocco del traforo di Cattolica è solo un momento – importante ma non unico – del fervore d’opere che si sta realizzando lungo lo Stivale sulla rete TEN-T, le principali direttrici di trasporto dell’Unione europea, sulle quali convergono fondi comunitari, nazionali e locali e adesso anche quelli del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). Basti pensare che il piano industriale del Gruppo FS 2022-2031 prevede un investimento di 2,5 miliardi solo per raddoppiare il volume delle merci trasportate da Mercitalia Logistics che costituiscono circa la metà dell’attuale traffico merci totale su rotaia.
Per capire meglio, però, bisogna partire dallo scenario europeo, su cui si gioca la partita. I corridoi europei che passano in Italia sono quattro e costituiscono, grosso modo, una specie di H con le due aste laterali formate dalle direttrici tirrenica e adriatica (anche se non tutta la seconda fa parte della rete TEN-T) e la barra trasversale attraverso la pianura padana. Rendere fluido il traffico attraverso queste linee in direzione del resto dell’Europa significa garantire all’Italia un ruolo rilevante nello scacchiere del commercio globale.
Ma perché questo si realizzi, l’operazione «sbottigliamento» va completata su tutte le barre della «H». La direttrice adriatica ha un andamento lineare e non incontra rilievi importanti, diversamente dalle altre tratte che devono superare gli Appennini e le Alpi. A quella del Brennero – la barra orientale – si lavora dal 2005 per aprire un tunnel di base in grado di consentire non tanto il passaggio dei semirimorchi P400, già in transito sulla linea attuale, quanto un maggior numero di treni (60-90 in più al giorno), convogli più lunghi e con carichi maggiori (un 20% in più) e velocità più sostenute (fino a 120 km/h). Purtroppo – dopo l’ennesimo rinvio – bisognerà attendere il 2032 prima che la nuova linea diventi operativa.
Per sbottigliare l’altra barra verticale – quella occidentale – l’attesa si presenta più breve (benché anch’essa sia in ritardo) per quanto riguarda la tratta più settentrionale: nel 2026, l’apertura del Terzo Valico del Giovi (definito dal presidente dell’Autorità portuale del Mar Ligure occidentale, Paolo Emilio Signorini, «la madre di tutti gli interventi») collegherà il porto di Genova ai trafori ferroviari del San Gottardo e del Ceneri, sbloccati per i P400 già dal 2020. Più o meno simili le previsioni di entrata in esercizio della rinnovata Bologna-Prato (dove si stanno adeguando 42 gallerie per una lunghezza complessiva di 30 km) che dal 2025 dovrebbe consentire il transito dei P400 e sbloccare, a quel punto, anche la linea tirrenica.

Il boom del semirimorchio

Sbloccare la sagoma dei tunnel, per un paese montuoso come l’Italia è importante per garantire una circolazione ferroviaria fluida e veloce. Lo dimostra accanto alla crescita d’interesse per il combinato l’aumento – questo sì documentabile – dei semirimorchi diventati ormai lo strumento principale dell’intermodalità ferro-strada. Tra il 2014 e il 2021 il mercato italiano del settore è più che raddoppiato, balzando da 6.866 a 15.085 pezzi venduti. Lo scorso anno il numero ha superato non solo il 2020, anno del Covid (il 32,1% in più), ma anche il 2019 (del 4,6%). E il trend non solo non accenna a fermarsi (nei primi quattro mesi del 2022, ne sono stati venduti il 4,6% in più dello stesso periodo del 2021), ma si sta sbilanciando nettamente a favore del semirimorchio (6,2% in più) a scapito del rimorchio (che perde il 10,7%).
Come mai? «Il semirimorchio», ha spiegato a K44 Risponde Alessandro Valenti, deputy managing director di Hupac, azienda leader nel trasporto combinato in Europa, «è l’unità di carico che oggi è usata prevalentemente dai trasportatori che viaggiano via strada, per cui è l’unità di carico che è più facile da trasferire su rotaia». E ha aggiunto che, anche Hupac ci sta puntando, «anche se dal punto di vista tecnico richiede degli accorgimenti per poter essere utilizzato nel sistema intermodale». Perché il semirimorchio per l’intermodale, in realtà, è leggermente diverso (e costa di più) di quello classico. Stefano Savazzi, amministratore delegato di Real Trailer, importatore italiano della tedesca Kröne, lo ha spiegato a K44 risponde: «C’è un aggravio della tara – ma non tanto consistente, perché sono circa 150 kg – e dal punto di vista del prezzo è un 7-8% in più».
Ma anche per questo la crescita del mercato dei semirimorchi è significativa dello spostamento dei trasportatori verso il combinato. Per Tobia Mazzi, trasport purchase manager di Arcese, che tratta oltre 50.000 spedizioni intermodali l’anno, ha spiegato sempre a K44 risponde chesi tratta di una modalità «che sta vivendo una grossissima transizione dalla richiesta di mercato». E ha segnalato che sul trasporto intermodale si affacciano sempre di più nuovi player. «Ma», si è chiesto, «può il network intermodale esistente assorbire tutta questa richiesta di mercato? Questo è il grosso punto di domanda».

Il problema del modulo

Perché proprio la crescita d’interesse per il combinato, lo «sbottigliamento» della linea adriatica, il boom dei semirimorchi ha messo a nudo tutti i nodi di una rete che fatica a tenere il passo con la domanda di trasporto. Non è solo questione di sagoma, ma anche di modulo, cioè la lunghezza dei treni e quella delle banchine. Lo standard europeo lavora con convogli lunghi 750 metri e con banchine nei terminal ferroviari ovviamente della stessa lunghezza, mentre in Italia, spesso le banchine non arrivano a 550 metri.
La situazione l’ha fotografata lo stesso gestore delle linee, Rete ferroviaria italiana (RFI) nel Piano commerciale 2021-2024: mentre quelle con la massima sagoma (P400 o P/C 80) a fine 2021 erano il 59% delle linee TEN-T e l’obiettivo per il 2024 è fissato nell’81%, quelle con la possibilità di comporre treni da 750 metri erano solo il 28% e nel 2024 al massimo potranno arrivare al 38%. «Purtroppo», ha sintetizzato a K44 risponde, Francesco Pagni, presidente di Fercargo terminal, «sia sul lato infrastrutturale, nei raccordi di collegamento tra le stazioni e i terminal, sia all’interno dei terminal stessi ci sono ancora problemi enormi da superare e la capacità che oggi possono esprimere gli impianti, soprattutto del Nord Italia, non è minimamente in grado di accogliere il numero di treni che le grandi nuove infrastrutture ferroviarie transalpine potrebbero permettere di effettuare».

Il caso di Busto Arsizio

Ma in questo cocktail – che Pagni ha racchiuso in tre parole: «migliorie, sviluppo, digitalizzazione» – il combinato è ancora in mezzo al guado e i lavori, le carenze, i disallineamenti ricadono sugli autotrasportatori, costretti a farsi carico delle attese provocate da un sistema ancora lontano dall’essere a punto. «Già è difficile trovare autisti», scuote la testa Roberto Spizzirri, titolare della Spiz trasporti di Milano. «Se poi mi restano quattro ore fermi in un terminal ferroviario, io li pago a vuoto e a loro passa la voglia di lavorare». E racconta la giornata di un suo conducente: si sveglia alle 4 del mattino, arriva al terminal dove resta quattro ore in attesa, riparte alle 9 e mezza, arriva a destinazione (magari a soli 60 km) dopo due ore di fila sulla tangenziale, attende altre due ore, scarica alle 14-15 e la giornata è finita. Nessun secondo viaggio ed è andata bene che non è stato costretto a pernottare fuori casa.
Emblematica è la situazione del terminal Hupac Busto Arsizio-Gallarate, su cui si appuntano le critiche di moltissimi autotrasportatori. L’impianto è il più grande interporto strada-rotaia d’Europa con una capacità di 8 milioni di tonnellate di merci l’anno e un traffico annuale di 420 mila unità di trasporto intermodale. Proprio per questo, però, basta un granello a incepparne i meccanismi. Lo stesso Valenti lo ha ammesso: «Effettivamente abbiamo vissuto delle difficoltà negli ultimi mesi dell’anno scorso e nei primi di quest’anno» e ha spiegato: «Il terminal è il punto di arrivo e di partenza di treni che poi entrano in una rete e quindi subiscono molto spesso anche le irregolarità della rete. A questo dobbiamo aggiungere il fatto che negli ultimi periodi riscontriamo delle anomalie legate vuoi a sbilanciamenti dei flussi di traffico nelle diverse direzioni, vuoi a qualche difficoltà nella velocizzazione dei ritiri per via, a detta dei nostri clienti, anche di carenze con gli autisti».

Ma la notte no

Per ovviare alle attese, alcuni terminalisti hanno allargato le finestre di carico e scarico. Acquaro ha investito in personale a Bari e a Milano per aumentare i turni di lavoro e ampliare le fasce lavorative giornaliere. «Anche a questo investimento», aggiunge, «vanno attribuiti gli ottimi risultati dei due impianti». E Hupac a Busto Arsizio ha incentivato i ritiri fuori orario. «Cerchiamo», spiega Valenti, «di spingere il mercato a utilizzare quelle fasce orarie meno affollate, meno frequentate, dando anche dei bonus di incentivazione al ritiro». Ma non tutti sono convinti. «L’iniziativa», racconta Spizzirri, «non ha avuto grande successo ed era ovvio. Avremmo bisogno di due autisti, moltiplicati per il numero di semirimorchi che gestiamo giornalmente, che sono oltre 150. È assurdo».

Redazione
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La redazione di Uomini e Trasporti

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