Il momento del parcheggio dei camion è simile a questo gioco da ragazzi: l’interruzione della musica corrisponde all’esaurimento del tempo di guida; sedersi equivale a parcheggiare; le sedie sono gli stalli a disposizione. Con una differenza: rispetto ai partecipanti le sedie sono una in meno; rispetto ai veicoli pesanti in circolazione i parcheggi in Italia sono 29 mila in meno. A conti fatti, ogni 289 camion esiste uno stallo. Immaginare questi 289 veicoli girare in tondo alla ricerca di quell’unico parcheggio – come abbiamo fatto in copertina del nuovo numero di UeT – fa apparire la scena surreale come un quadro di Dalì.
Bisognerebbe aggiungere:
• che le insufficienti aree di sosta esistenti garantiscono servizi poco degni di questo nome;
• che la prospettiva di avere questi luoghi come dépendance del proprio luogo di lavoro potrebbe indurre tanti a tenersi lontano dalla professione di autista;
• che sarebbe urgente costruire nuovi parcheggi;
• che tale urgenza è stata percepita anche dall’Italia (tramite Albo Autotrasporto) e dall’Europa stanziando opportuni fondi;
• che almeno da noi i bandi indetti per finanziare nuove aree vanno quasi tutti deserti;
• che un modello imprenditoriale per rendere finanziariamente sostenibile la gestione di questi spazi non è facile da individuare.
E sono proprio gli argomenti trattati in questo numero. Qui vorrei ribadire un’altra evidenza: a imporre precisi tempi di guida ai conducenti dei veicoli pesanti è una normativa europea. Nel 2026 festeggia venti anni e le statistiche dicono che in questo lasso di tempo è stata in grado di ridurre incidenti, decessi e diverse forme di sfruttamento (imposte o autoimposte). Fin qui, quindi, tutto bene. Ora, però, visto che nel tempo i camion sono aumentati in maniera esponenziale rispetto ai parcheggi, il problema non è tanto la guida, ma il riposo.
Perché se quando termino le ore di guida imposte diviene quasi impossibile trovare quel posto libero da sottrarre ad altri 288 colleghi, rispettare quella normativa si fa veramente difficile. Certo, bisogna arrangiarsi, ma fino a che punto? Fino a che punto diventa sano, quando la guida non è più possibile e la prospettiva di una sanzione concreta, convivere con l’ansia di non sapere dove e quando si troverà uno spazio in cui sostare? E poi, che qualità di sonno concede un parcheggio improvvisato sul ciglio di una strada o quello in un anfratto di un’area autostradale, eseguito con il timore di dar fastidio e con l’eventualità che un agente di polizia bussi sul finestrino per chiedere di spostarsi o che un malvivente tagli il telone del rimorchio per rubare la merce?
Se il fine della legge è di tutelare chi guida, per evitare che metta a repentaglio la propria e l’altrui esistenza, siamo sicuri che davanti a tali derive, capaci di minare l’indomani la concentrazione al volante, venga comunque raggiunto? Quando una persona paga un artigiano affinché costruisca un mobile di cui ha bisogno, questi è obbligato a realizzarlo. Salvo un caso: che sopravvenga qualcosa in grado di rendere impossibile la sua prestazione. Che il magazzino in cui lavora, per esempio, sia distrutto da un incendio. Perché in quel momento – dice il diritto – la sua obbligazione si estingue. E allora non c’è una terza strada: o troviamo in fretta la maniera di realizzare aree di sosta dignitose, oppure anche l’obbligazione degli autisti , oltre che la loro pazienza, dovremmo considerarla esaurita.
Questo articolo fa parte del numero di luglio/agosto 2025 di Uomini e Trasporti: un numero che contiene un’ampia inchiesta sulle aree di sosta per camion.
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