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Lavaggio delle divise: quando è obbligo del datore di lavoro?

Seguendo il principio di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, la Cassazione ha ribadito che la manutenzione dei dispositivi di protezione individuale, incluso il lavaggio degli indumenti protettivi, è a carico del titolare e che i dipendenti hanno diritto al rimborso delle spese sostenute per i lavaggi stessi

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La Corte di Cassazione ha recentemente affrontato un tema che riguarda direttamente gli operatori ecologici, ma che coinvolge anche chi fa trasporto di merci pericolose e/o inquinate. Stiamo parlando del lavaggio delle divise e del rimborso delle spese sostenute per la loro pulizia, dato che si tratta di indumenti quotidianamente esposti a rifiuti, agenti biologici e sostanze potenzialmente nocive. Secondo gli operatori che hanno sollevato la questione dinanzi ai giudici le divise sarebbero a pieno titolo Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) e quindi rientrerebbero nella funzione preventiva sancita dall’art. 2087 Codice civile, norma che obbliga il datore di lavoro a adottare ogni misura utile a tutelare l’integrità psicofisica dei dipendenti, inclusa la corretta manutenzione degli strumenti di protezione loro affidati. Come vedremo, la Corte d’Appello di Bari aveva però respinto la domanda, ritenendo insussistente un obbligo specifico di provvedere al lavaggio delle divise e negando la risarcibilità delle spese sostenute dai lavoratori.

Il nodo centrale della controversia è dunque se la pulizia delle divise – in quanto DPI – debba essere garantita dal datore di lavoro e se l’omissione di tale attività possa generare un danno risarcibile. Preannunciamo che la Suprema Corte ha ribaltato l’impostazione della Corte territoriale, riaffermando che la manutenzione dei DPI – e dunque il lavaggio delle divise – rientra tra gli obblighi inderogabili del datore di lavoro.

IL FATTO

Ma partiamo dall’inizio, ringraziando lo Studio Cataldi che ha segnalato la sentenza. Chi trasporta e lavora con i rifiuti ha la quotidiana necessità di lavare le tenute a proprie spese, affrontando costi ricorrenti e inevitabili per mantenerle in condizioni igieniche adeguate. Si tratta di indumenti esposti ogni giorno a sporcizia, agenti patogeni e sostanze potenzialmente nocive e che i lavoratori ritenevano a pieno titolo Dispositivi di Protezione Individuale (DPI). Da questa qualificazione discendeva la loro richiesta di ottenere dal datore di lavoro il rimborso delle spese di lavanderia e il risarcimento del danno, patrimoniale e non patrimoniale, derivante dall’omessa manutenzione degli strumenti di protezione.

La Corte d’Appello di Bari, tuttavia, aveva ritenuto generiche gli allegati relativi ai costi sostenuti e carente la prova concreta del danno, non desumibile – secondo i giudici pugliesi – dalla sola natura delle mansioni svolte né dalla frequenza dei lavaggi che tali mansioni avrebbero imposto.

Contro questa decisione i lavoratori hanno proposto ricorso per Cassazione, denunciando un’erronea valutazione delle allegazioni, un omesso esame di un fatto decisivo rappresentato dalla funzione protettiva delle divise e dalla loro esposizione a rischi igienico-sanitari e infine la violazione delle norme di legge e del CCNL in materia di sicurezza sul lavoro, che imporrebbero al datore l’onere della manutenzione dei DPI.

LA DECISIONE

Nell’esaminare la questione gli Ermellini si sono concentrati sui confini degli obblighi del datore in materia di prevenzione ed hanno accolto il ricorso «per quanto di ragione», riconoscendo la fondatezza dei rilievi sollevati dai lavoratori e censurando diversi passaggi della sentenza d’appello. Secondo la Suprema Corte è infatti valido il principio – più volte affermato in giurisprudenza – secondo cui gli indumenti di lavoro specifici, utilizzati in contesti con esposizione a rischi igienico-sanitari o ambientali, rientrano nella nozione di Dispositivi di Protezione Individuale (DPI). Quindi il datore di lavoro non solo è obbligato a fornirli, ma anche a garantirne la manutenzione integrale, comprendendo in essa il lavaggio e l’igienizzazione necessari a mantenerli idonei alla funzione di protezione.

In questo senso la Cassazione ha «rimproverato» la Corte d’Appello di aver effettuato una valutazione priva di adeguato approfondimento istruttorio. I giudici di merito, secondo gli Ermellini, avrebbero infatti respinto la domanda senza confrontarsi realmente con la natura dei compiti svolti dagli operatori ecologici e senza considerare la rilevanza della prova testimoniale richiesta dai lavoratori, la cui ammissione avrebbe potuto chiarire tanto l’effettiva esposizione a rischi quanto la necessità dei lavaggi frequenti.

LE CONSEGUENZE

Con queste motivazioni la Suprema Corte ha disposto il rinvio alla Corte d’Appello di Bari in diversa composizione, chiamata a riesaminare la vicenda applicando correttamente i principi in tema di salute e sicurezza sul lavoro e, in particolare, gli obblighi datoriali relativi ai DPI.

Quali sono gli effetti immediatamente operativi di questa pronuncia, soprattutto per i titolari che impiegano personale esposto a rischi igienico-sanitari? Per le imprese – pubbliche o private – diventa imprescindibile organizzare, gestire e sostenere direttamente il lavaggio delle divise, assicurando che gli indumenti-DPI siano costantemente mantenuti in condizioni idonee alla funzione protettiva. L’omissione di tale attività non può più essere scaricata sui lavoratori, né sul piano economico né su quello organizzativo. I dipendenti hanno perciò diritto al rimborso delle spese documentate sostenute per lavaggi effettuati in assenza di un adeguato servizio aziendale, oltre alla possibilità di rivendicare un danno ulteriore, patrimoniale o non patrimoniale, derivante dalla violazione degli obblighi prevenzionistici. Anche la contrattazione collettiva ne risulta rafforzata, dando impulso a definire in modo più puntuale, nei contratti nazionali e integrativi, le modalità di manutenzione degli indumenti protettivi.

Infine, la decisione della Cassazione introduce la piena apertura alla prova testimoniale come strumento idoneo a dimostrare la natura delle mansioni, l’esposizione ai rischi e la necessità di lavaggi frequenti. Un segnale importante per i giudici di merito, chiamati a valutare con maggiore attenzione la dimensione concreta delle attività lavorative.

Il rinvio alla Corte d’Appello di Bari in diversa composizione apre ora la strada a una nuova valutazione del danno e delle spese, con il chiaro messaggio che la prevenzione non può essere delegata ai lavoratori, né sul piano economico né su quello organizzativo.

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