
Caro Francesco, in Italia abbiamo interiorizzato un’idea di lavoro che ci porta a sentirci «in debito» verso il datore di lavoro, quasi come se ogni ora prestata fosse un favore e non uno scambio professionale equo. Forse è un’eredità delle vecchie botteghe, dove si andava dal maestro artigiano per imparare e ci si sentiva grati per ciò che trasmetteva, quasi come se la gratitudine fosse parte integrante dell’apprendimento stesso.
Forse nasce anche da quelle frasi che ci hanno ripetuto per anni: «Ringrazia di avere un lavoro», «Io ti ho insegnato tutto», quasi a suggerire che restare non sia una scelta ma un dovere morale, un vincolo invisibile che grava sulla coscienza. È un po’ come quando i genitori rimproverano ai figli con un laconico: «Con tutto quello che ho fatto per te», come se il debito emotivo potesse sostituire la libertà di scegliere.
Eppure, se anche con i figli questo approccio risulta sbagliato, visto che il compito di un genitore è accompagnarli nella vita e non vincolarli alla propria, come potrebbe mai essere giusto applicarlo nel mondo del lavoro?
Un rapporto professionale non dovrebbe essere una catena di obblighi morali, ma uno scambio chiaro e rispettoso. Tu hai dato il tuo tempo, la tua energia e le tue competenze, contribuendo al profitto e al successo dell’azienda; lui ti ha retribuito per questo, riconoscendo il valore del tuo contributo. Il patto termina qui: nel rispetto reciproco, nella professionalità e nella correttezza, senza dover mai sfociare in sensi di colpa o in obblighi non scritti. Se c’è trasparenza, lealtà e rispetto, tutto il resto diventa superfluo, quasi accessorio.
Forse è anche per questo che oggi percepiamo il mondo del lavoro come sempre più inadeguato: perché ci obbliga a firmare un contratto morale invisibile che non siamo più disposti ad accettare. Forse il lavoro dovrebbe tornare a essere uno strumento di vita, un luogo in cui dare ma anche crescere, un contesto in cui lasciare in eredità competenze e conoscenze, senza legami emotivi forzati o debiti morali, ma con l’orgoglio sincero di aver costruito qualcosa insieme. E magari farlo con la stessa naturalezza e dedizione con cui un bravo maestro accompagna il proprio allievo, sapendo che il valore più grande non è trattenere, ma liberare competenze e crescita.
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