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Barbara Strozzi, la «contessa acida» dell’autotrasporto si racconta

51 anni di cui 23 trascorsi alla guida del suo camion, Barbara Strozzi è una veterana del settore. Salita a bordo a 26 anni con due figlie piccole e la famiglia contraria, Barbara si è fatta strada – e soprattutto un nome – in un’epoca in cui le donne al volante erano ancora poche, ma i sogni erano tanti e soprattutto grandi…quanto un bilico

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«Sono una bimba di nove anni quando vedo per la prima volta un camion e subito me ne innamoro». Inizia così la storia d’amore tra Barbara Strozzi e il mondo dell’autotrasporto. Un amore a prima vista che da 23 anni a questa parte non si è mai affievolito. Quando la intercettiamo è naturalmente alla guida, «ma ho l’auricolare» ci rassicura con la sua voce allegra e l’inconfondibile accento bolognese delle sue origini, anche se ormai da tempo vive a Ferrara. Scopriamo solo in seguito che per parlare con noi ha abbassato la radio che tiene sempre accesa a farle compagnia con un po’ di musica: «Anche techno, a volte» ci rivela. Barbara ha l’anima grintosa di una veterana che per realizzare il suo sogno ha dovuto farsi le ossa e mentre i chilometri scorrono sotto le ruote del suo camion, la mente vola al passato, a quando era solo una bambina che con occhi sognanti guardava i “bestioni della strada” dal balcone di casa, accanto al distributore di benzina dove si fermavano a fare rifornimento prima di ripartire per lunghi viaggi che allora Barbara poteva solo immaginare.

«In famiglia non c’erano camionisti, per cui quando dicevo che avrei voluto fare questo mestiere da grande nessuno mi prendeva sul serio». Tra il dire e il fare, però, c’è di mezzo la vita e i piani di Barbara, crescendo, cambiano: «A 18 anni mi sono sposata e insieme al matrimonio sono arrivate a distanza di quattro anni l’una dall’altra due bambine, Sabrina e Francesca.
All’epoca lavoravo già in una ditta per la quale guidavo furgoni, ma il mio sogno di guidare un camion, uno vero, è sempre rimasto. Nessuno immaginava che avessi ancora voglia di inseguirlo, ma dopo la nascita della seconda bambina mi sono decisa a iscrivermi a scuola guida e prendere la patente. Avevo 26 anni e tutta la famiglia era contraria, ma non c’è stato verso di farmi cambiare idea».

Il sogno inizia a prendere forma quando viene assunta come autista. Un lavoro giornaliero che le consente di rientrare la sera e occuparsi delle figlie ancora piccole. Quando le bambine crescono, Barbara inizia a viaggiare anche all’estero: il Sud della Francia, la Germania, ma soprattutto la Svizzera e in un’occasione anche la Spagna. Ed è proprio di quel viaggio avvenuto nel 2010 che conserva uno dei ricordi più belli: «Arrivammo a Valencia dopo due giorni bellissimi di viaggio. Stavamo facendo un trasporto per una ditta di catering che doveva gestire un evento per la Ferrari, in occasione del Gran Premio di F1. La vista dell’autodromo pieno di auto meravigliose sarebbe di per sé bastata per farmi portare a casa un ricordo bellissimo, ma l’ultima sera, prima di ripartire, presentavano la nuova auto con la quale avrebbero corso il Gran Premio. Stavo parlando con i meccanici di Maranello quando a un certo punto entra in sala un ragazzino, guarda la macchina, stringe la mano a tutti, compresa a me, e poi si allontana. Era Fernando Alonso. Ho stretto la mano ad Alonso!». A sentirla raccontare questo episodio Barbara sembrerebbe ancora incredula. «Ma non fu l’unico incontro interessante fatto durante la mia carriera di autista: in pausa a un Autogrill incontrai anche Raz Degan. Io uscivo, lui entrava con la troupe per le riprese. Non si fanno certi incontri se si fanno altri lavori» ci dire ridendo e aggiunge che il suo sogno sarebbe stato quello di guidare un bilico per il Cavallino Rampante. «Ti immagini, la prima donna autista in Ferrari, mi sa che resterà solo un sogno nel cassetto però». In realtà, non è l’unico. «All’epoca mi sarebbe piaciuto aprire un’azienda di autotrasporto tutta mia, di sole donne, ma dopo aver fatto qualche calcolo mi sono resa conto che sarebbe stato un debito troppo grande da pagare. Tra l’altro, all’epoca non era facile trovare donne autiste, ce ne erano molte meno. Ho scelto di non rischiare e di abbandonare quella strada. Lo ammetto, oggi mi è rimasto un po’ il rimpianto».

L’avventura estera termina con la nascita di altri due bambini, i gemelli Alessandro e Andrea che oggi hanno 13 anni. Nel frattempo, Barbara inizia a lavorare per una piccola ditta vicino a casa per la quale trasporta ortofrutta nei mercati e nei supermercati, «Lavoro di notte e di giorno mi occupo della famiglia» spiega. La domanda, però, sorge spontanea: ma Barbara, quando si riposa? La risposta arriva ancora una volta sincera e allegra: «Non sono mai stata una dormigliona per fortuna, mi basta qualche ora al giorno e sono di nuovo carica. D’altronde ho preso questa decisione per non stare troppo lontana dai bambini, anche se per loro è stato più facile perché con la mamma autista ci sono nati, ma le prime due figlie da piccole hanno patito un po’ di più la mia mancanza e non mi andava di essere poco presente anche per i gemelli. Oggi che sono più grandi è più facile, non hanno più bisogno costante della mamma, anche se adesso ci sono anche le nipotine a cui badare». Tre, per la precisione: Veronica di 13 anni, Asia di 12 e Kawthar di 7. Ed è proprio quest’ultima che sembrerebbe aver già la grinta della nonna che oggi, a 51 anni, non ha assolutamente intenzione di appendere il volante al chiodo e vorrebbe trasmettere la passione a una futura erede: «Kawthar segue con attenzione quando faccio le manovre o i posteggi e dice di voler fare l’autista da grande, ma è ancora presto per dirlo». Anche se è di poco più piccola di quella bambina che si sporgeva dal balcone di casa per guardare i camion e alla fine, quel sogno, l’ha realizzato.

Lasciamo un attimo da parte la splendida famiglia di Barbara e le chiediamo che cosa ha visto cambiare in questi anni nel settore.
«È venuto meno il rispetto per chi fa questa professione, almeno in Italia. Dell’estero, fino a quando l’ho frequentato come autista, conservo invece un ricordo migliore. Basta guardare le aree di servizio per capire la considerazione che si ha degli autisti in Italia rispetto agli altri Paesi. Alcune volte ho dovuto impuntarmi, altre volte le segretarie delle aziende mi sono venute incontro offrendomi la chiave del loro bagno, ma vorrei ricordare che avere un bagno praticabile e accessibile sul posto di lavoro è un diritto per tutti, sia per le donne che per gli uomini».

La guida, invece, come è cambiata?
«Basti pensare che quando ho iniziato io si usava ancora il cambio fuller. Impiegai due giorni a capire come funzionava, ma che goduria che era guidare. Oggi guido un Daf in cui la tecnologia la fa da padrona: è tutto più comodo, più sicuro, c’è più attenzione per l’autista, ma ad essere totalmente sincera, mi divertivo di più prima».  

Qual è la cosa più importante sul tuo camion?
«La pulizia. Su questo punto non sono pignola, di più. Quando mi caricano il camion controllo sempre che non abbiano sporcato e comunque prima di partire una passata di straccio la devo dare. La cabina è casa mia, mi devo sentire a mio agio».

Da veterana, come avvicineresti i giovani a questa professione?
«Partiamo prima di tutto da un fatto: le spese per chi vuole cominciare a fare questo lavoro sono altissime. Un ragazzo o una ragazza giovane, come fa? Eppure, in questo settore avremmo bisogno non solo di più giovani, ma di più donne, di cervelli pensanti femminili come piace dire a me. Sono donna e sono di parte, lo so, ma sono sicura che una maggiore presenza femminile farebbe la differenza».

Se mettessimo sul piatto della bilancia vantaggi e svantaggi del mestiere, cosa prevale?
«Questo lavoro richiede sacrifici e passione. Ho saltato le recite dei miei figli quando erano piccoli perché dovevo partire o dovevo riposarmi; ci ho rimesso anche il mio matrimonio, ma il rovescio della medaglia per me c’è: ho visto posti meravigliosi in questi anni, ho ammirato albe e tramonti, ho viaggiato tanto e nonostante le difficoltà io oggi quando rientro a casa sono contenta, sono soddisfatta».

Prima di salutarla le rivolgiamo un’ultima domanda, una curiosità più che altro.
Ti chiamano ancora «contessa acida»?
Barbara ride di gusto e spiega: «All’inizio era solo contessa perché ero timida, entravo in settore prevalentemente maschile e me ne stavo un po’ sulle mie, salutavo poco. Acida è venuto dopo, mi sono fatta una certa fama. Però sì, capita ancora che mi chiamino così e tutto sommato non mi dispiace».

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