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Monica Dongili: «Le donne devono acquisire consapevolezza di sé, ma servono modelli di riferimento»

Pink empowerment, leadership e networking. Termini dal significato spesso ambiguo ma che in realtà hanno un impatto molto concreto su settori tipicamente maschili, compreso quello dei Trasporti. Ce li spiega Monica Dongili, trainer e professional coach di Intoo, che aiuta le donne a farsi rispettare anche in quei lavori che si dicono essere “da uomini”

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«Essere sicura delle proprie abilità e competenze aiuta a vedere garantiti comportamenti rispettosi nei nostri confronti anche in un ambiente con una prevalenza di organico maschile». A parlare è Monica Dongili, Trainer e Professional Coach di Intoo – società di Gi Group Holding leader nei processi di sviluppo e transizione di carriera – protagonista di alcune pillole video disponibili sul portale Women4 dedicate ad aiutare le donne ad affermare il proprio valore in contesti professionali prevalentemente maschili, come quello dei Trasporti. Pink empowerment, leadership femminile e networking rischiano però di sembrare parole dal significato astratto, quando invece il loro impatto è reale. Che cosa significa quindi esattamente empowerment femminile e quali sono gli effetti che genera?
«Simone de Beauvoir diceva che “Donne non si nasce, si diventa”. Per empowerment femminile intendiamo quindi la capacità di riuscire a prendere consapevolezza di sé, delle proprie competenze e delle proprie abilità e agire di conseguenza. Gli stereotipi tendono ad appiattire la diversità di genere, a incanalarla in categorie predefinite, e questo ha determinato un blocco delle carriere femminili facendo sì che la scelta di carriera di una donna fosse sempre orientata verso quelle professioni ritenute tipicamente femminili e trascurando invece quelle definite più maschili. Al contrario, l’empowerment femminile tende a valorizzare le diversità di genere, consentendo alle donne di sviluppare altri potenziali. L’obiettivo è quindi far comprendere il valore aggiunto delle donne e delle loro peculiarità all’interno di contesti prettamente maschili, come per esempio il settore dei Trasporti e della Logistica”.

Ma come aiutare una donna ad affrontare queste barriere?
In Italia siamo ancora molto indietro per quanto riguarda la diversity inclusion per cui è indubbio che c’è ancora tanta strada da fare e per poterla percorrere è necessario prima di tutto creare consapevolezza sociale, cioè fare in modo che le donne acquisiscano sempre maggiore consapevolezza di sé e non si fermino di fronte a convinzioni limitanti. Poi occorre incoraggiare e sostenere le aziende a investire nell’occupazione femminile e far capire loro che l’integrazione comporta anche dei benefici.

Quando parliamo di investimenti però parliamo anche di costi. Un problema di questi tempi…
Sì, ma si tratta sempre di costi governabili, al pari di qualsiasi altro costo che un’azienda deve sostenere. Se si iniziasse a parlare di progettualità anche quando si pensa alla maternità o alla paternità forse la visione cambierebbe. Come tutti i progetti, maternità e paternità rappresentano infatti un costo per un’azienda ma allo stesso tempo un beneficio, dal momento che le caratteristiche che un genitore sviluppa in questi momenti della sua vita, come la gestione dello stress, il decision making e l’intelligenza emotiva, sono senza dubbio competenze utili anche per le aziende. Si tratta quindi a tutti gli effetti di investimenti per i quali esistono dei programmi di welfare in grado di aiutare le imprese a sostenerli.

Quali sono quindi le azioni che le aziende possono intraprendere per integrare maggiormente le donne?
Come dicevo, è fondamentale lavorare sulla diversity inclusion per creare quello che mi piace definire un patto tra aziende e lavoratori. La Logistica è un settore molto sfidante in tal senso. Pensiamo per esempio ai servizi che spesso sono assenti per le donne, ma anche all’utilizzo di un linguaggio o comportamenti tipicamente maschili. Il passaggio veramente importante da compiere è il salto dal tema dell’empowerment femminile a quello dell’empowerment professionale che va oltre il genere e consente un maggiore grado di accoglienza e rispetto della diversità, aprendo alla possibilità che certi lavori siano svolti anche dalle donne sulla base del potenziale delle persone e non del loro genere.

In qualità di coach, quali sono i consigli che dà alle donne per affrontare i pregiudizi in ambito professionale?
Preferisco parlare di stimoli, più che di consigli. Un coach, quindi un punto di vista esterno, può sicuramente aiutare ad acquisire una maggiore consapevolezza di sé, dei propri punti di forza e delle proprie debolezze. Lo step successivo è valorizzare questi aspetti e acquisire maggiore sicurezza e autorevolezza.

Spesso però di fronte all’esternazione di un pregiudizio ci si ritrova spiazzate…
È normale, possono subentrare delle emozioni forti da gestire. In questi casi però è importante restituire un feedback relativo al proprio “sentire” in quel momento. Non è facile perché non siamo allenate a farlo, per questo sarebbe importante iniziare ad insegnare a farlo fin dalle scuole.

Quanto conta in questo contesto avere dei modelli di riferimento?
Avere dei role model femminili da seguire è importantissimo. Spesso invece le donne quando raggiungo ruoli che fino a poco tempo fa gli erano stati preclusi tendono ad assumere caratteristiche ritenute tipicamente maschili. Pensiamo al modo di vestirsi, per fare un esempio. Le giovani donne hanno bisogno di modelli femminili da seguire che possano dimostrare loro che è possibile raggiungere certe posizioni e svolgere certi lavori pur mantenendo le loro diversità di genere. La leadership femminile ha delle sue caratteristiche che possono tranquillamente essere integrate e complementari a quelle maschili.

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