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EDITORIALE | La lezione di Suez

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Quando l’ingegnere Luigi Negrelli progettò, in pieno Ottocento, il canale di Suez, di certo non avrebbe mai immaginato che un giorno da quel canale largo poco più di 50 metri sarebbe transitata una nave lunga 400. A Fiera di Primiero, cittadina del Trentino alle pendici delle Dolomiti dov’era nato, misure di questo tipo si addicevano più alle montagne che alle barche. Ma lo sfortunato ingegnere trentino (morì poco prima dell’inaugurazione del canale) non poteva nemmeno immaginare che da quell’istmo scavato a costo di fatica e vite umane un giorno non sarebbero passati più chili di spezie e tessuti, ma oltre un miliardo di tonnellate di merci ogni anno. Scherzi della storia o, piuttosto, il frutto di una dinamica simile a un gatto che si morde la coda: più gli scambi commerciali globali crescono (sono decuplicati in 10 anni), più Suez cresce di importanza, più le portacontainer aumentano le dimensioni. 

In Egitto, nel 2015, assecondarono l’accresciuta centralità di Suez rimaneggiando il canale, così da ridurre i tempi di attraversamento da 18 a 11 ore e da raddoppiare da 49 a 97 il numero di navi in transito ogni giorno. In pratica, moltiplicarono il rischio che una delle 5.500 megaportacontainer in viaggio per le acque mondiali rimanesse incagliata nelle parti più strette del corso d’acqua.

Ma non è ovviamente la dinamica dell’accaduto a destare interesse, quanto la sua capacità di far toccare con mano, per la seconda volta dopo le turbolenze pandemiche, la fragilità degli scambi commerciali marittimi e di una logistica costretta a tenerne il ritmo.

Il problema, in sintesi, è statistico, nel senso che ormai è sempre più probabile che qualcosa di imprevisto prima o poi accada facendo saltare il banco. Proviamo a spiegare il perché.

Il commercio marittimo mondiale transita per il 90% attraverso canali artificiali risalenti a più di cento anni fa, tipo Suez o Panama, o tramite stretti, molto stretti, come quello di Hormuz o di Malacca. In pratica questi istmi stanno al commercio globale come i ponti e le gallerie stanno al nostro sistema infrastrutturale: sono provati e sempre più esposti a incidenti in quanto ospitano un transito di mezzi, impensabile per dimensioni e intensità nel momento in cui sono stati concepiti. La portacontainer spiaggiata a Suez ha dimostrato come basti veramente poco per mettere fuori gioco una neve da più di 200 mila tonnellate di stazza, che si muove in spazi angusti come un rinoceronte danzante su un bicchiere di cristallo. Ma soprattutto ha reso evidente che se è difficile manovrare questi grattaceli galleggianti, ancora più complicato è recuperarli dopo lo spiaggiamento e coprirli con polizze assicurative adeguate. Perché se i danni da navigazione sono stellari, quelli da ritardo – che nessuna assicurazione sarà mai disposta a risarcire e per i quali saranno necessarie lunghe azioni legali contro l’armatore – funzionano allo stesso modo di una goccia d’acqua che cade in uno stagno e crea infiniti cerchi concentrici. Tracciarli tutti è impossibile. Più facile è ribadire quale sia l’effetto moltiplicatore, individuabile in quel sistema produttivo dominante che, di fatto, più che cancellare le scorte dai magazzini, le ha messe in movimento stipandole su mezzi di trasporto, nelle stive delle navi o nei semirimorchi di un camion. Quando poi si somma questa modalità organizzativa, rigidamente ritmata sul just in time, alle distanze sempre maggiori della delocalizzazione, si capisce sia perché la logistica sia una leva economica decisiva, sia perché un qualunque battito di ali sia in grado di metterla in crisi e quindi di rendere vano l’intero meccanismo. Perché se tutto questo – creare navi più grandi, delocalizzare, eliminare le immobilizzazioni create dalle scorte – serve a tagliare i costi, ma poi una raffica di vento qualunque o un banale errore umano finisce per creare una striscia di extracosti perfino superiori a quanto risparmiato, non diventa tutto inutile?

Quando nelle prossime settimane nei porti di mezza Europa si faranno i conti con il caos organizzativo generato dalla riprogrammazione, con la difficoltà di tenere in equilibrio il flusso di container pieni e vuoti, con la congestione creata da centinaia di navi arrivate tutte insieme dopo lo sblocco di Suez, quando le sofferenze logistiche dovute all’ipertraffico improvviso tracimeranno su ogni modalità (strada compresa) e centinaia di camion saranno costretti a trascorrere giornate in vana attesa, ripetiamoci questa domanda come un mantra. Non aiuterà a trovare risposte, ma potrebbe favorire a diffondere nuove consapevolezze. Prima del prossimo incidente…

Daniele Di Ubaldo
Daniele Di Ubaldo
Direttore responsabile di Uomini e Trasporti

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