Gentile Redazione,
ho letto con molto interesse il vostro articolo «Le scorciatoie oltre confine della CQC» pubblicata su Uomini e Trasporti a firma di Deborah Appolloni.
Scrivo dal punto di vista di chi, insieme a UNASCA e a molte autoscuole, Enti e centri di formazione, vive quotidianamente sul campo le ricadute concrete delle norme su CQC.
La Formazione come “rigide norme imposte dal nostro Paese per il conseguimento della CQC”? Si tratta di un vincolo “di sistema”, non una fissazione italiana. Non lo penso solo io: tutta la letteratura internazionale ci dice che la formazione non è un orpello, ma un fattore strutturale per produttività, sicurezza e qualità del lavoro.
Quando una qualifica apre le porte a responsabilità pesanti (persone, merci, sicurezza di terzi), il livello di formazione non è un dettaglio burocratico, è l’architrave della professionalità. Condivido la vostra attenzione alla carenza di autisti: è un problema reale, che rischia di bloccare filiere intere. Proprio per questo, però, la Carta di Qualificazione del Conducente non è una mera complicazione amministrativa.
La direttiva 2003/59/CE (oggi rifusa nella 2022/2561/UE) nasce esplicitamente con l’obiettivo di “garantire una qualificazione iniziale e una formazione periodica dei conducenti […] per migliorare la sicurezza stradale e la sicurezza del conducente”, e di rendere i conducenti più consapevoli dei rischi, dei carichi, delle manovre, delle interazioni con gli altri utenti della strada [1]La formazione prevista per la CQC non è paragonabile a una laurea (né per durata né per profondità teorica), ma è indispensabile per:
costruire conoscenze di base solide su norme, tempi di guida/riposo, dispositivi, responsabilità; sviluppare consapevolezza del rischio e rispetto delle regole di sicurezza stradale e sul lavoro; predisporre l’autista a entrare in azienda già con un minimo di “mentalità professionale”, che poi verrà completata con affiancamento e esperienza reale sul veicolo e sul tipo di servizio specifico.
In altre parole, il corso non sostituisce l’esperienza, ma impedisce che l’esperienza inizi da zero, “a freddo”, su mezzi da 44 tonnellate in mezzo al traffico.
Nel vostro articolo l’Italia appare come il solo Paese che ha scelto la via più rigida (corso + esame) mentre tutti gli altri avrebbero optato per modelli molto più snelli: invero sono pochissimi gli Stati che hanno scelto l’impervia strada del solo esame. È vero che il Legislatore ha scelto, all’interno delle opzioni della direttiva, un modello particolarmente “corso-centrico”; ma non è affatto vero che l’Italia sia l’unica a ritenere essenziale la formazione.
Ritengo necessario evidenziare particolarmente che il “Turismo della CQC” che viene citato nell’articolo, sia vincolato ad una residenza normale: quindi più di un dubbio! Venendo al caso specifico dei weekend in Slovenia (e, in parallelo, ai pacchetti analoghi in pochi altri ambigui Paesi, Polonia inclusa), condivido la vostra preoccupazione, ma la allargherei. La direttiva richiede esplicitamente che la qualificazione sia conseguita nello Stato membro di residenza normaledel conducente, oppure nello Stato dove è stabilita l’impresa per cui il conducente lavora.
La “residenza normale” non è un dettaglio ed organizzare pacchetti da venerdì a lunedì per autisti, che vivono e lavorano altrove, solleva seri dubbi sulla corretta applicazione di questo requisito.
In più, da molte testimonianze che raccogliamo sul campo, parliamo di costi che arrivano o superano i 4.500 euro per superare, quanto riteniamo illecito, il requisito della stessa residenza normale e non solo… a fronte di percorsi in cui, ci viene riferito, la parte di esame è talvolta solo formale se non praticamente inesistente.
Alla faccia, della sicurezza stradale e degli ambienti di lavoro: qui non siamo più nel legittimo confronto tra modelli formativi diversi, ma in un rischio serio di “vendita” di qualifiche con marchio UE, svuotate di contenuto. Condivido pienamente la domanda di fondo che chiude il suo pezzo: “Come garantire sicurezza senza paralizzare il settore?”
Come UNASCA, insieme alle principali associazioni del trasporto, stiamo spingendo nella stessa direzione che l’articolo richiama (e che, come riferisce ad esempio, FAI-Conftrasporto ha formalizzato in una proposta al MIT):
- Più e-learning mirato: stiamo chiedendo di estendere e rendere davvero operativo questo canale anche per il conseguimento e il rinnovo CQC, così da ridurre tempi morti e costi delle aziende.
- Stiamo proponendo la fattibilità di percorsi modulari e “step” intermedi, proponendo la possibilità per l’autista di accedere gradualmente alla piena CQC, con esami parziali e step chiari, e, nel frattempo, di poter svolgere attività limitate a contesti nazionali e meno complessi, sotto tutoraggio aziendale, così che l’impresa possa accompagnare davvero la crescita professionale.
- Esami più semplici da gestire, non più poveri di contenuti. Schemi d’esame che combinino quiz informatizzati, realistici e comprensibili; delle traduzioni per gestire eventuali esami in lingua non italiana per i candidati stranieri, come lei giustamente richiamava.
Nell’articolo si cita spesso la soglia delle 240 ore. A beneficio del dibattito pubblico, può essere utile chiarire che l’Italia, in attuazione della direttiva preposta, prevede oggi percorsi che, a seconda dei casi, vanno dalle 22.5 ore per chi estende una CQC già posseduta all’altra tipologia, fino ai corsi di 140 ore per la qualificazione iniziale;
le 240 ore si incontrano solo nei casi di deroga ai limiti di età, ad esempio per permettere il conseguimento anticipato di alcune patenti (come la patente D a 18 anni, con vincoli di esercizio), proprio per compensare la minore età con più formazione.
Lo dico non per fare “pedanteria normativa”, ma perché nel dibattito pubblico la percezione di “240 ore per tutti e sempre” rischia di essere fuorviante e di alimentare una rappresentazione del sistema più rigida di quanto in realtà sia.
Vi sarei davvero grato se voleste considerare questi elementi come un contributo al dibattito che il suo articolo ha il merito di riaccendere. Naturalmente è nel pieno diritto della stampa evidenziare storture, rigidità e lentezze del sistema italiano (molte le condividiamo e le denunciamo noi per primi), ma credo sia importante che passi anche il messaggio che tutta la filiera, Ministero, associazioni datoriali, autoscuole, centri di formazione… sta cercando di capire come rendere la professione di autista di nuovo attrattiva, senza arretrare su sicurezza stradale e tutela dei lavoratori.
Ritengo che la strada non sia sostituire uno o due mesi di formazione con “un weekend oltreconfine”, ma ripensare meglio come formiamo, dove possiamo usare le tecnologie e come organizziamo esami e percorsi, perché siano rapidi e al tempo stesso seri.
Cordiali saluti
Alfredo Boenzi, Segretario Nazionale Unasca
Risposta dalla Redazione
Con il nostro articolo non vogliamo assolutamente minimizzare l’importanza della formazione per gli autisti. Anzi, è il contrario. Proprio sollevando la questione del recepimento “corso-centrico” della CQC in Italia intendiamo segnalare che molti aspiranti autisti si ritrovano turisti per caso in Slovenia (o in Polonia) per poi salire su un Tir senza aver avuto tempo e modo di formarsi adeguatamente. Quindi, ben vengano proposte dall’Unasca e dalle associazioni dell’autotrasporto per modificare il sistema, introducendo flessibilità e semplificazione, senza dover penalizzare lo studio e la preparazione. Un sistema più snello sarebbe utile anche per reperire con maggiore facilità gli autisti, sempre più introvabili in Italia e in Europa. E forse consentirebbe – perché no? – di abbassare i costi della formazione, ancora troppo alti, anche alle nostre latitudini. Felici di aver riacceso il dibattito con il nostro articolo, l’auspicio è che non si spenga con un nulla di fatto.


