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Dazi: dopo la doccia scozzese di Trump, il mercato globale prova a riorganizzarsi

Confusione, incertezza e la ferma convinzione di tutti gli operatori che nulla sarà come prima. Così si cercano vie d’uscite: produrre negli USA, cercare nuovi mercati, puntare sul marketing, dividere i costi con gli importatori. Ma intanto c’è la corsa a esportare in America il più possibile nei tre mesi di sospensione dei dazi. Poi, si spera che l’Unione europea si metta d’accordo con Trump

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È successo tutto in tre mesi. Dazi per Canada, Messico e Cina. No, quelli per Canada e Messico sospesi, ma quelli per la Cina no. Poi, dazi del 25% su alluminio e acciaio per tutti. E per le auto europee. No, dazi per tutti del 10% e tariffe «aggiuntive» mirate per 57 paesi, fino al 47% per il Vietnam. No, questi ultimi sospesi per 90 giorni, ma non per la Cina che arriva al 145%. No, da questi sono esclusi smartphone e hard disk (assemblati in Cina dalle big tech americane). E sui vini europei i dazi potrebbero arrivare al 200%. E ce ne saranno anche sui prodotti farmaceutici europei. Però con l’Unione europea si può trattare.

Tra annunci e ordini esecutivi, Donald Trump in meno di novanta giorni è riuscito a gettare nella confusione i mercati internazionali. Che di fronte allo slalom tariffario hanno risposto con cauta fermezza (l’Europa minaccia altrettanti dazi e poi li sospende) o con aspra durezza (la Cina alza le tariffe e blocca le forniture di gas e di metalli rari). Salvo cercare poi tutti, Trump compreso, la strada dell’accordo.

Uno zig-zag globale

Uno «zig-zag», come lo ha definito Cesar Perez Ruiz, Head of Investments & CIO della società svizzera di investimenti Pictet Wealth Management, che «ha creato confusione nei mercati». E si sa che se c’è una cosa che i mercati mal sopportano è proprio l’incertezza. Che è stata fotografata con una battuta da Lamberto Frescobaldi, presidente di Unione Italiana Vini: «Magari domani Trump ci dice: “No, scusate, non avevo detto 90 giorni, avevo detto 19 giorni”».

Per rendersi conto degli effetti provocati da questo «zig-zag» basta guardare i principali scali marittimi mondiali: porti intasati, portacontainer alla fonda, cassoni accatastati nei piazzali. E le merci o ferme per evitare nuovi costi o accelerate per giungere a destinazione prima che scattino le misure annunciate. Dato che il dazio è per lo più a carico di chi importa (anche se poi ricade sul prezzo finale del prodotto), molte aziende americane hanno bloccato gli ordini dai paesi più penalizzati, in particolare dalla Cina, nonostante la merce fosse già caricata sui container (il dazio scatta solo per le merci già partite). Il risultato è che i cassoni si accumulano sulle banchine cinesi e le portacontainer ricominciano a restare alla fonda in attesa di caricare. Sembra di tornare ai tempi della pandemia.

I settori colpiti

Perché è vero che i paesi UE hanno spedito nel 2024 negli Stati Uniti 584 miliardi di merci, 67 dei quali provenienti dall’Italia, ma l’intreccio tra forniture di materiale e manifattura è talmente intricato nelle odierne economie globalizzate che la vera domanda è quali prodotti saranno realmente colpiti alla fine dello zig-zag e come ridisegnare in funzione dei futuri equilibri le rotte marittime e quelle stradali. Per questo imprese, porti, spedizionieri e trasportatori sono sotto pressione.

«Il commercio internazionale», ha spiegato Carlo De Ruvo, presidente di Confetra, «vive un periodo di turbolenza mai visto nei tempi moderni. Saranno decisivi i prossimi tre mesi per comprendere come si potrà attestare il mercato». Intanto, prevede una diminuzione dell’export verso gli USA del 16%, una riduzione del PIL dello 0,2% e un calo occupazionale di 17 mila unità.

Difficile capire in quale settore i dazi faranno più danno. Secondo l’Istat sono 3.300 le aziende italiane «vulnerabili»: farmaceutici (13 miliardi di export negli USA), meccanica avanzata (13 miliardi), gioielli e mezzi di trasporto (8 miliardi), mobili e agroalimentare. Ma i farmaci sono (per ora) fuori dai dazi, i macchinari sono prodotti d’eccellenza esclusivi, la gioielleria è un mercato che non si spaventa per gli aumenti di prezzo. Restano i mobili (1,7 miliardi) e l’agroalimentare che con più di 6 miliardi rappresenta il 9% del nostro export negli USA.

Il campione di Livorno

Prodotti ai quali il rinvio di tre mesi dell’introduzione dei dazi ha messo le ali ai piedi. Il porto di Livorno – dove nel 1794 fu insediata la prima sede consolare americana in Italia – è la cartina di tornasole del nostro traffico marittimo con gli USA. Il 40% dei quasi 700 mila container che lasciano ogni anno il porto toscano sono diretti verso la costa atlantica degli Stati Uniti: vino (il 30%), olio, piastrelle e ceramiche, marmo, componenti industriali e grandi macchinari.

Subito dopo i primi annunci di Trump molte di queste merci hanno finito per accumularsi nei magazzini, mentre spedizionieri italiani e importatori americani andavano a rileggersi i contratti per verificare se c’era la clausola DDP (Delivery Duty Paid) che lascia i rischi a chi vende o le clausole FCA (Free Carrier) o EXW (Ex Works) che li assegnano al compratore. Su questa base cercavano un’intesa per dividersi quel 20% di maggiori costi, mentre ai varchi doganali dello scalo il traffico di tir era molto inferiore, visto che spedizionieri e produttori lasciavano le merci nei più economici magazzini del retroporto che non sulle più costose banchine, e molte navi partivano con meno merce del previsto.

Ma è bastato l’annuncio della sospensione dei dazi per tre mesi per rimettere in moto la macchina. Già nel pomeriggio del 9 aprile alcuni spedizionieri hanno preparato in tutta fretta i documenti di viaggio e nella notte hanno cominciato a smaltire le scorte. Ora però bisogna muoversi. Il tempo passa e i 90 giorni non sono 90: bisogna togliere il tempo del viaggio (tra i 12 e i 20 giorni a seconda del servizio), decidere una strategia, organizzarla e metterla in pratica.

Alla ricerca di soluzioni

Certo, c’è anche la possibilità che le trattative USA-UE portino a tariffe più basse, ma di quanto, come e per chi sono interrogativi privi di risposte, mentre l’esempio di Livorno dimostra come la logistica sappia trovare in fretta soluzioni provvisorie ma efficaci.

La prima strada da verificare è quella dei mercati alternativi, indicata dal ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ricordando che il Piano del governo per l’export ha l’obiettivo di raggiungere i 700 miliardi entro fine legislatura. «Questo è un modo», ha spiegato, «di cercare di raccogliere risultati positivi in territori come India e Giappone, ma poi ci sono i paesi del Golfo, il Sudafrica, i paesi dell’Estremo Oriente, penso all’Indonesia, al Vietnam, alle Filippine, ma anche ai mercati dell’Asia centrale».

E il presidente di Fedespedi, Alessandro Pitto, l’ha ribadita: «Urge avviare una riflessione strategica su nuovi flussi commerciali e su nuove alleanze guardando con interesse al mercato del Nord Africa e valutando strumenti come l’accordo CETA con il Canada, che sta già generando benefici concreti».

Poi c’è la possibilità di cedere alla pressione di Trump e aprire stabilimenti negli USA. È un’ipotesi studiata dai produttori di caffè, da tempo in sofferenza per gli aumenti della materia prima. Antonio Baravalle, CEO di Lavazza, che è già presente negli USA con due stabilimenti, ha fatto capire che potrebbe delocalizzare tutta la produzione destinata al mercato americano: «A oggi il 50% della nostra produzione americana è realizzata negli Stati Uniti, ci manca un altro 50%. Il progetto per completarla è approvato, si tratta di accelerarlo, ma è chiaro che ci sono dei tempi. Noi siamo pronti». E la sua omologa di Illycaffè, Cristina Scrocchia, lo ha ammesso: «Valutiamo se trasferire parte della produzione in USA».

Ma non è semplice. Giancarlo Licitra, CEO di LGB Sicilia, azienda leader nel mercato mondiale dei semi di carrube, intervistato dal TGcom non ha escluso di aprire un impianto negli USA, ma non ora: «Un investimento in America è sempre stato uno degli obiettivi di un eventuale nostro sviluppo internazionale, ma paradossalmente, in questo momento non c’è grande continuità di politica economica in America e abbiamo visto repentini e profondissimi cambiamenti nel giro di pochi mesi da un’amministrazione all’altra. Questo non incentiva l’idea di fare investimenti».

Una strategia che le imprese produttive stanno prendendo in considerazione, però, è quella di muovere le leve del marketing e della trattativa diretta. Insomma, non è solo una questione di prezzo. «Lavoreremo», ha spiegato Nicola Bertinelli, presidente del Consorzio Parmigiano Reggiano, «per cercare con la via negoziale di fare capire per quale motivo non ha senso applicare dazi a un prodotto come il nostro che non è in reale concorrenza con i parmesan americani: si tratta di prodotti diversi che hanno posizionamento, standard di produzione, qualità e costi differenti».

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