Tra i tanti ho il messaggio di una titolare di un’azienda che lavora da anni come subvettore. Una di quelle imprese che prendono in carico fisicamente il trasporto, spesso alla fine di una lunga catena di intermediazioni. Persone che fanno chilometri, affrontano burocrazie, investono su mezzi e personale, ma che troppo spesso restano invisibili nei tavoli decisionali.
Ho deciso di partire da quelle parole per costruire una riflessione più ampia. Non perché siano «le più importanti», ma perché rappresentano bene un sentimento diffuso: stanchezza, frustrazione, ma anche lucidità e desiderio di cambiamento.
Questa titolare non si è limitata a lamentarsi. Ha elencato i veri problemi del settore.
Gli intermediari che si aggiudicano lavori a prezzi irrealistici, senza avere mezzi né struttura, solo per poi scaricare il servizio a cascata, generando dumping.
Le borse carichi, che in teoria dovrebbero ottimizzare i flussi, ma che nella pratica alimentano una competizione al ribasso.
I tempi di pagamento, troppo spesso dilatati, con effetti devastanti sulla liquidità delle piccole imprese.
Le associazioni che – a suo dire – non rappresentano più la voce di chi lavora davvero.
La burocrazia paralizzante, che rende ogni adempimento una corsa a ostacoli.
E infine, gli aiuti pubblici: pochi, complicati, spesso inefficaci.
A tutto questo si aggiunge un paradosso: per ottenere ciò che per legge spetterebbe – come i rimborsi sulle accise o i pedaggi – molte aziende si vedono costrette ad aderire a consorzi o a intermediari che di fatto gestiscono queste risorse in modo poco trasparente.
Cosa rispondere, in modo serio, a questa testimonianza? Innanzitutto, che ha ragione su molti punti.
Il problema dell’intermediazione selvaggia è reale. E andrebbe affrontato con una normativa semplice: chi non ha mezzi o capacità operativa diretta non dovrebbe poter accedere a certi appalti. La filiera va accorciata, rendendo più trasparente il rapporto tra chi commissiona e chi esegue. Questo significa anche responsabilizzare la committenza, che deve sapere e dichiarare chi materialmente porta le sue merci.
Sul tema delle borse carichi, occorre aprire un confronto serio. Non si può accettare che diventino un meccanismo sistemico di erosione dei margini. Serve una revisione del modello, che premi la qualità e la trasparenza, non solo il prezzo.
La questione dei tempi di pagamento è ancora più urgente. È inaccettabile che in un settore a basso margine e ad alta intensità di capitale circolante si continui a pagare a 60, 90 o anche 120 giorni. Questo punto non è più solo economico, è etico e sistemico.
Quanto alle associazioni, lo dico con chiarezza: chi non si sente rappresentato ha il diritto di dirlo. E anche il dovere di contribuire a cambiare le cose. Serve un salto di qualità nella rappresentanza, un’alleanza generazionale e culturale che rimetta al centro chi lavora, non chi parla più forte.
Infine, sulla burocrazia: la digitalizzazione dovrebbe essere una priorità per lo Stato, invece ci troviamo con una MCTC che impiega settimane per rilasciare documenti essenziali. Serve uno Stato che accompagni e non che ostacoli.
Per quanto riguarda i rimborsi delle accise, questi potrebbero avvenire direttamente alla pompa – tracciando in questo modo il carburante effettivamente erogato in ogni rifornimento (eliminando così la possibilità di fare del nero….) – senza la necessità di una azione ex post, magari anche con tariffe proporzionali alle emissioni del mezzo.
La questione è seria e complicata. Capisco bene che ci sono interessi legittimi, ma anche tanti interessi contrapposti – a volte opachi, altre volte chiaramente distorsivi.
Quello che però voglio evitare è la tentazione, oggi molto diffusa, di affidare sempre alla magistratura il compito di «fare pulizia». Penso invece che persone come la titolare di questa azienda che ha scritto questa lettera dovrebbero essere aiutate dal sistema a svolgere al meglio il proprio lavoro, non lasciate sole o peggio ancora colpevolizzate per le storture che subiscono.
Chi fa trasporto vero, oggi, ha bisogno di una filiera che lo protegga, che aiuti le aziende sane a crescere in modo organico e come ecosistema e non sfruttatori seriali del tipo usa e getta.
E ha diritto – almeno questo – a essere ascoltato, ad essere preso sul serio e, da quelli che ci vogliono stare, aiutato a cambiare il settore.