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Morti anonime di autisti in area di sosta. E ai familiari nessuna rendita

Sulla A32, nell'area di servizio di Salbetrand sulla A32, nel giro di 40 giorni sono morti due conducenti di camion per cause naturali. Malori, come si dice in genere. Decessi invisibili che probabilmente non lasceranno alcun sostegno economico alle famiglie superstiti. Come ha sentenziato il Tribunale di Frosinone

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Lo scorso 9 aprile, nell’area di servizio Gran Bosco Est di Salbetrand, lungo l’autostrada A32 Torino-Bardonecchia, un trasportatore di 52 anni è stato trovato privo di vita a bordo del suo autocarro. Una morte per cause naturali, come confermato dai sanitari del 118 e successivamente dal medico legale dell’Asl TO3, come purtroppo capita quando si fa un lavoro così faticoso come quello di conducente professionale.

Meno frequente invece che nello stesso posto, dopo 40 giorni, si verifichi la stessa tragedia. Infatti, sabato 20 maggio un altro camionista è stato trovato morto nella stessa area di servizio dell’A32, dentro al piazzale dove si posteggiano i camion, anche in questo caso deceduto per un probabile malore.

Una morte anonima

Cosa colpisce di queste vicende simili? Certamente la vicinanza di due eventi drammatici nello stesso luogo e in un lasso di tempo molto stretto e ovviamente la giovane età dei defunti. Ma anche e soprattutto la morte anonima ed invisibile di questi due lavoratori della strada. Del primo autista, infatti, sappiamo solo l’età (52 anni), che era residente a Boves, in provincia di Cuneo, e che lavorava per la ditta cuneese Lannutti. Del secondo  – identificato con le iniziali T.Z. – che aveva 48 anni ed era di nazionalità greca. Tutto qui. Morire soli, in un’area di servizio lungo un’autostrada, non ti dà il diritto di far sapere al mondo chi eri, cosa facevi, se lasci una moglie o dei figli.

Già, la famiglia. Cosa rimane a una famiglia di un camionista che ha perso il suo caro mentre lavorava? Certo, i ricordi, i sentimenti, il dolore che non se ne andrà via facilmente. Ma più prosaicamente: come andrà avanti un nucleo familiare che si è visto mancare la principale fonte di sussistenza? Ebbene le notizie anche in questo caso non sono buone.

Il decesso per malore può dare diritto a rendite?

Al proposito siamo andati a ripescare una sentenza del Tribunale di Frosinone (n.284/2021) che appunto giudicava della morte per malore di un conducente di autocarro durante l’espletamento delle attività lavorative. L’Inail era stata citata in giudizio dagli eredi del conducente deceduto per vedersi riconosciuta la rendita per legge spettante ai superstiti, in relazione all’infortunio mortale che aveva colpito il loro congiunto colto da un malore alla guida. I parenti spiegavano al giudice che il lavoratore, in qualità di autista di 4° livello del CCNL, conduceva mezzi pesanti con rimorchio, caricava la merce e trasportava e scaricava all’arrivo a destinazione. Nell’ultimo periodo lavorativo, inoltre, guidava anche più di 10 ore al giorno, effettuando tragitti caratterizzati da ripetuti viaggi giornalieri della durata di 60-90 minuti, su strade difficili. Nel giorno dell’incidente mortale (nel 2016), guidava un autotreno da 520 quintali, più pesante rispetto a quelli trasportati solitamente, in una giornata caratterizzata da manovre manuali di sgancio del rimorchio della motrice e dei cavi delle prese d’aria e di corrente dell’autotreno e dal ripetuto deposito a terra di cassoni, sia in andata che al ritorno. E proprio durante il viaggio di ritorno, all’ora di pranzo, mentre si trovava alla guida, veniva colto da infarto miocardico, andando a urtare contro il muro di cinta di un’abitazione ad Avezzano. La tesi era dunque quella di un infortunio sul lavoro indennizzabile.

Per il giudice il malore non è riconducibile al lavoro svolto

L’Inail non aveva però riconosciuto la rendita ai superstiti, sostenendo che la morte non era riconducibile all’evento, ovvero che l’autista era morto per cause naturali indipendenti dal contesto lavorativo. Un’interpretazione sotto certi versi sorprendente, che però è stata accolta anche dal Tribunale laziale, secondo cui «non è indennizzabile per assenza di nesso causale il malore alla guida e il successivo immediato decesso dell’autista dell’autotreno».

Quali le motivazioni di questa decisione? Innanzitutto, lo stato problematico della salute dell’autista 55enne, affetto da alcune complicazioni cardiache. Secondo il consulente medico-legale il conducente non aveva svolto un’attività tale da provocare l’infarto: «Si è trattato, in particolare, di tre sedute di guida di poco meno di 100 km ciascuna, con un costo metabolico modesto e d’inverno, in condizioni microclimatiche non estreme. Allo stesso modo, l’attività di guida è presumibile si sia esercitata all’interno di un mezzo di trasporto climatizzato». Secondo il medico, il processo di formazione del trombo aveva avuto inizio prima della comparsa della sintomatologia e in condizioni di semi-sedentarietà (il lavoratore era seduto, alla guida del camion) e dunque non in relazione ad uno sforzo fisico.

Da questa valutazione emerge già un primo dubbio: singole attività di per sé non troppo faticose o ritenute tali, sommandosi non possono causare uno stress psicofisico che favorirebbe il malore? In questa eccezione ci sarebbe sicuramente il nesso causale tra attività lavorativa e decesso. Del resto lo stesso giudice ammette che l’infarto miocardico è spesso preceduto dall’esecuzione di un lavoro fisico pesante, anche se poi spiega che «solo circa nel 5% dei pazienti un qualche esercizio fisico precede immediatamente la comparsa dei sintomi». In questo caso mancherebbe tuttavia lo sforzo fisico intenso, sia nelle attività di guida che nell’aggancio e sgancio dei rimorchi, nemmeno come possibile concausa. «Di contro – dice il Tribunale – il verosimile status pro-trombotico indotto dalla dimostrata coagulopatia da cui era affetto il lavoratore potrebbero avere contribuito alla formazione del trombo e di conseguenza all’infarto».

Insomma, secondo medico legale e giudice «l’attività lavorativa svolta il giorno della morte non aveva quelle caratteristiche di causa violenta capace, per specificità e intensità, di turbare la salute o di sopprimere la vita».

Risultato: il giudice, condividendo le conclusioni del consulente medico-legale  e i successivi chiarimenti, ha deciso che l’infarto subito dal lavoratore non è qualificabile come infortunio sul lavoro.

Una legge che non protegge chi sopravvive?

Ora, non sta certo a noi discettare sulle ragioni della legge o sull’equità di questa sentenza, che però eticamente e moralmente appare estremamente punitiva per la famiglia del deceduto. Ci pare tuttavia che l’interpretazione del lavoro dell’autotrasportatore da parte dell’organo giudicante non sia realistica. Anche ammesso che la condizione di salute del guidatore non fosse perfetta – e comunque non in tutti i casi è così – definire come fa la sentenza l’attività di trasporto merci su strada come «semisedentaria» e a un costo metabolico «moderato» significa non avere contezza della realtà lavorativa di chi guida un camion per mestiere. In questa valutazione non si tiene conto – come accennato – del sommarsi degli sforzi quotidiani che portano quasi sempre a una situazione di stress psicofisico che a sua volta può indurre episodi gravi per la salute, riconducibili perciò al contesto lavorativo.

Il nostro auspicio è dunque duplice: che sia riconosciuto una volta per tutte lo status di lavoro usurante al trasporto merci su strada e che successive sentenze invertano il giudizio sul nesso causale tra decesso e infortunio sul lavoro, anche nel caso di morte naturale. Così da fornire un po’ di pace almeno economica a chi già ha sofferto un lutto prematuro.

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