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Massimo Marciani, presidente FLC: «Ma le imprese vere sono ancora poche»

Ci sono 15–20 mila aziende di tipo industriale, ma ci sono ancora 50–60 mila partite iva o srl a socio unico e questo porta a una «balcanizzazione» del settore, mentre ci vorrebbe una strategia nazionale che incoraggiasse esodi e aggregazioni, facendo assorbire i monoveicolari come autisti delle imprese più strutturate

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«L’unico segno positivo che vedo in questa fase di cambiamento è la percentuale delle imprese che hanno una composizione più simile a un’azienda di servizi e meno a un prestatore d’opera. Ma sono poche, troppo poche. Se prendiamo in considerazione le aziende con più di 100 mezzi – che in Europa sono aziende medie, non sono aziende grandi – ce n’è una su cento. Siamo tutti contenti che siano aumentate, ma sono solo una trentina in più e l’assetto del settore resta sempre lo stesso». Massimo Marciani non si entusiasma più di tanto di fronte agli ultimi dati sull’autotrasporto nazionale. Presidente e fondatore (25 anni fa) di una delle principali agenzie di consulenza del mondo della logistica e dei trasporti, la FIT Consulting, presidente dal 2018 del Freight Leaders Council, Premio logistico dell’anno nel 2019, il settore lo conosce in tutte le sue pieghe e lo fotografa senza sfumature: «Da una parte ci sono 15–20 mila aziende di tipo industriale che vedono la logistica come un servizio da offrire all’industria e sulle quali si può contare per investire, fare innovazione, decarbonizzare, digitalizzare. Dall’altra ne abbiamo 50–60 mila che sono state fatte evolvere come se fossero aziende, invece sono partite iva o srl a socio unico, nate sul mantra che piccolo era bello, che le PMI erano il tessuto vibrante dell’Italia, ma questo può valere nell’artigianato, nell’eccellenza agroalimentare, manifatturiera o meccanica, ma non funziona nella logistica».

Secondo lei, quindi, la gran parte degli autotrasportatori non si interfaccia con i committenti, ma con aziende più strutturate che diventano primi vettori e offrono al committente un pacchetto più ampio di servizi.

Attenzione: il tema della subvezione è molto delicato. Ha i suoi detrattori, ma anche i suoi sostenitori, secondo cui si tratta di un polmone di piccole aziende, che conoscono meglio il territorio e sono disponibili a intervenire quando ci sono eccessi di domanda per cercarsi altri lavori nel momento in cui la domanda scende. Ma la subvezione porta a una sorta di intermediazione, in cui il primo vettore prende un lavoro a 100 e poi lo fa svolgere a 80 a un subvettore con le stesse caratteristiche del servizio e con le stesse modalità richieste dal cliente, però a un prezzo più basso. Ma quando il proprietario della merce – magari una piccola o media impresa – si accorge che il servizio lo fa un altro, a un prezzo più basso, lo ingaggia direttamente lui così risparmia. E questo porta a quella che ho definito una «balcanizzazione» del settore, mentre ci vorrebbe una strategia nazionale. Cassa depositi e prestiti si sta riprendendo la rete di Telecom e TIM, come asset di primaria importanza nazionale. E la logistica, in un paese che non ha materie prime ed energia e che esporta prodotti finiti, non è anch’essa un bene nazionale?

Quali rischi si corrono in questo modo?

Il rischio principale è di mettere a repentaglio la capacità delle nostre aziende di essere presenti sui mercati. A me piacerebbe che l’Italia andasse a comprare aree per creare centri intermodali in altri paesi come fa la Svizzera. Invece noi siamo terra di conquista. Adesso la Lufthansa compra il cargo aereo italiano: ma che interesse ha una compagnia tedesca a spingere il made in Italy? Ormai sappiamo che il vettore è una leva di marketing fondamentale: se un’azienda italiana produce una valvola per un condotto idrico e c’è una società tedesca che fa la stessa valvola, è chiaro che la logistica finirà per condizionare la scelta del cliente.

In altre parole, il governo dovrebbe preoccuparsi di questo anziché far sopravvivere le imprese più piccole e meno competitive.

Secondo me lo Stato sta drogando il settore dell’autotrasporto, mantenendo artificiosamente in vita delle imprese che non hanno nessun motivo per stare in vita. Noi abbiamo aziende che hanno una marginalità dell’1%. Che scommettono sul valore del gasolio e se questo cambia, chiedono che lo Stato gli copra la differenza anziché riversarla sul cliente. Poi sento di audizioni in Parlamento in cui si parla di sussidi dannosi per l’ambiente erogati all’autotrasporto. Ma la verità è che l’autotrasporto non si trattiene un centesimo: tutti i soldi che prende e gira all’industria, abbassando le tariffe per spuntare un contratto in più. Anche per questo non riesco ad accettare il fatto che i nostri industriali si siano sempre rifiutati di applicare il franco destino: è una grave responsabilità che frena la nostra logistica ed espone a pesanti rischi il Sistema Paese.

Ma non è che questo mondo traballante, che campa con tali escamotage, rischia di essere travolto dalla transizione ecologica?

Diciamo che è una delle mie aspettative, perché il settore ne ha bisogno. Non è un discorso cinico. Al contrario: sono 32 anni che mi occupo di logistica e da questo settore ho avuto veramente tanto, quindi vorrei restituirgli qualcosa, per consentirgli di avere dignità, visibilità, valorizzazione. Allora ritengo che potrebbe essere una buona idea cercare di ridurre di 20–30 mila unità il numero di licenze dell’autotrasporto in conto terzi, magari attraverso incentivi alle aggregazioni o all’esodo o cercando in qualche modo di incoraggiare l’assorbimento di queste figure da parte delle imprese più strutturate. Anche perché non sono figure imprenditoriali: spesso lavorano per una sola azienda, hanno sul camion la livrea di quell’azienda, ne indossano la divisa, ne usano i sistemi operativi e dunque sono molti più dipendenti di quel che hanno voluto fargli credere – soprattutto i sindacati – in tutti questi anni. Oltretutto una soluzione di questo genere darebbe una boccata d’aria alle imprese strangolate dalla crisi degli autisti. Ma qualunque cosa si faccia ci vuole, dietro, una strategia industriale, perché non stiamo parlando della movimentazione delle persone, dove uno prende l’autobus o la macchina privata o la bicicletta. Stiamo parlando di un pezzo di industria che viaggia sulle ruote e quindi per forza deve essere trattata in maniera industriale.

Redazione
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La redazione di Uomini e Trasporti

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