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Cosa provoca gli incidenti

Rispondere a questa domanda equivale a sottoporsi a una seduta psicanalitica armati di uno specchio retrovisore su cui far scorrere il proprio quotidiano, fatto di ritmi incessanti, traffico congestionato, cambi di programma repentini, orari ferrei da rispettare, scarichi e attese da sopportare e poi tempi (impossibili) da recuperare. Sono gli angoli ciechi della nostra umanità, in cui si annidano affanno e distrazione

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Noi esseri umani ci focalizziamo sempre sul legame causa-effetto, qualsiasi cosa ci capiti.
Lo facciamo, credo, non tanto per capire veramente i nessi causali, ma per trovare qualcuno da ringraziare in caso di effetto positivo e un colpevole da condannare in caso di effetto negativo.
Insomma, da una parte Dio per aver creato il mondo (per chi è credente, ovviamente) o il fato buono per averci organizzato l’incontro più importante della vita e, dall’altra, il destino avverso per averci dato un appuntamento nel posto sbagliato nel momento sbagliato.
Come fosse un bersaglio su cui scagliare tutte quelle emozioni che, in fondo, non sappiamo gestire.

Il racconto degli incidenti

L’esempio perfetto e anche più aggrappato al nostro quotidiano è quello di un qualsiasi incidente stradale alla guida di un mezzo pesante. Prendete in considerazione i titoli che lo descrivono e che già presentano insita nelle parole una causa dell’accaduto, quasi fosse uno sbiancante della nostra coscienza.
Autista ha un malore e vola dal viadotto: «Ok – diciamo – è il destino».
Colpo di sonno fatale per il conducente: «Eh, vedi? Era stanco, poverino».
Si rompono i freni di un camion, diversi feriti: «Oh, questa è una tragica fatalità.
E in questo modo ci sentiamo tutti un po’ meglio. Eppure, lo sappiamo: i freni non si rompono all’improvviso, un ponte non crolla perché si è stancato di fare il suo dovere, un autista non si addormenta se rispetta la normativa e le condizioni di lavoro sono ottimizzate, un malore non è mai veramente improvviso, così come gli autisti non mancano solo perché gli stipendi sono bassi.
Allora perché certe cose accadono? Come si può individuare il momento in cui è scaturita la vera causa? Come possiamo agire per migliorare una situazione, per scaricare la responsabilità o per arginare un problema?

Responsabilità in gioco

Non si può. Ed è una risposta fredda e senza anima, come la teoria (confermata) della creazione per concatenamento di cause fisiche e chimiche, o spaventosa, come capire che dietro a un singolo evento c’è, in fondo, la responsabilità di ognuno di noi.
Non si può definire l’inizio e la fine di un evento come se fosse un segmento misurabile, si può solo andare a ritroso quel tanto che basta per capire il decorso degli eventi che hanno portato a quella conseguenza e prendersi davvero in carica la nostra responsabilità: una manutenzione ignorata per anni; la salute trascurata; fenomeni di stress perpetuati nel tempo.
Ipotizziamo un colpo di sonno o una distrazione, che sono tra le principali cause di incidenti stradali e si connotano come quelli più “accidentali”, contrariamente all’eccesso di velocità, frutto evidente, invece, di una scelta del conducente.
Il colpo di sonno, a meno che il conducente non sia narcolettico (cosa improbabile per chi ha conseguito un permesso di condurre dopo obbligatorie visite mediche), non è il frutto di una notte insonne e nemmeno, per sfatare l’ennesimo falso mito, della non abitudine a un determinato ritmo di lavoro.

Il primo incontro col colpo di sonno

Ricordo perfettamente quando ci siamo conosciuti: è stato un intero viaggio, più che un colpo di sonno. Facevo gli stessi orari da quasi un anno, ma quella sera i miei occhi non riuscivano a rimanere aperti, mi fermavo a ogni area di servizio in cerca della giusta miscela di caffeina, sperando che, insieme a quei dieci minuti sul volante, mi aiutassero a percorrere qualche chilometro in più. Arrivare a casa fu peggio di una tortura dell’Inquisizione. Immagino, perché non sono così vecchia.
Eppure, avevo dormito come sempre, avevo svolto il mio lavoro allo stesso modo, nelle stesse modalità, con lo stesso mezzo. Invece, era proprio in quella costanza che albergava il problema.
Nell’assuefazione a ritmi stressanti. Nel sottovalutare i sintomi e sopravvalutare le nostre capacità. Perché è vero che il nostro corpo si adegua agli stimoli e si adatta, è vero che inizialmente migliora e poi manifesta l’esigenza di avere stimoli sempre maggiori, ma a un certo punto va in overdose. Di allenamento, di farmaci, di stress e di stanchezza.

I rischi insiti nel lavoro di autista

Il nostro è un lavoro fatto di ritmi incessanti: traffico congestionato, cambi di programma repentini, orari ferrei da rispettare (che spesso non rispecchiano il vero andamento del settore e della normativa).
Non solo. È un lavoro che ci vede anche facchini, obbligati a caricare e scaricare per ottimizzare al massimo il tempo a nostra disposizione, spesso perso proprio al carico e scarico, quando siamo costretti a rimanere in attesa, restando però vigili per ascoltare il nostro numero di targa da un megafono gracchiante.
È un lavoro che ormai è divenuto cieco di fronte alla cattiva organizzazione e ha tentato di reagire tramite una serie di meccanismi di difesa che hanno fatto più male che bene.
Il tempo non si recupera correndo come pazzi a 90 km/h in ogni dove, sperando di mangiare secondi oltre che chilometri. Il tempo non si recupera scambiando, sulla carta, i martelletti con la branda mentre siamo in rampa. Il tempo non si recupera: punto. E dovremmo farci i conti.
Il rischio, altrimenti, è quello di vivere sempre in affanno, di corsa e di utilizzare la guida come momento rilassante quando, per professione, dovrebbe essere quello di attenzione.
La guida, per tutti in realtà, dopo un po’ diventa meccanica, richiede meno energie di quelle che invece sono necessarie per controllare troppe situazioni impreviste, estranee alla nostra mansione.

La distrazione che non ti risparmia

Alla guida, non appena ci concediamo soltanto un attimo di tregua, il fatto arriva.
Il mio, fece la sua apparizione qualche tempo dopo quel momento di estrema stanchezza (rimasto, per fortuna, privo di conseguenze) e apparve in questo modo.
Erano solo le dieci del mattino, ero partita da mezz’ora dalla logistica. Il camion davanti a me si sposta e gli ero troppo sotto per capirne il motivo.
Crash!
Centrai una macchina in corsia di emergenza, provocando – per fortuna – solo danni materiali.
Io e l’automobilista stavamo bene, eravamo solo spaventati. I veicoli stavano decisamente peggio di noi.

Le vere origini dei sinistri

Posso dare tutte le giustificazioni del mondo, posso spiegarvi la dinamica al dettaglio e sentirmi meglio. La verità è che, fondamentalmente, ero distratta.
No, non ero al telefono, ero semplicemente assorta nei miei pensieri. Come accade a tutti.
Possiamo raccontarci quello che vogliamo per sentirci meglio, ma la verità è che dietro agli incidenti per sonno o per distrazione spesso c’è una dinamica errata, basata su comportamenti errati, reiterati nel tempo con la speranza che tutto continui ad andar bene. Momenti in cui non concediamo più la priorità all’essere umano, ma la affidiamo al denaro; in cui pensiamo che economia e umanità viaggino su binari separati; in cui ci convinciamo che la fatalità non possa esistere veramente.
Possiamo raccontarci quello che vogliamo, ma forse dovremmo imparare di più a guardare indietro, a far finta per un attimo che anche la vita abbia un suo specchio retrovisore.

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