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Una filiera poco amica

Bizzarra la lingua italiana. Per identificare qualcuno che è «amico» di qualcosa utilizza il suffisso «filo». Un «esterofilo», quindi, è chi predilige cose straniere. Ma la stessa radice «filo» serve pure a fare riferimento a una serie di contributi. «Filiera» logistica, per esempio, è un insieme di anelli concatenati per consentire alle merci di scorrerci attraverso. Ma perché il filo che tiene legati i diversi momenti del trasporto non fa scaturire una solidarietà tra chi fornisce i contributi?

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È un giorno lavorativo qualunque e sono in consegna con le solite merci. Trasporto libretti di uso e manutenzione che andranno inseriti nelle scatole di elettrodomestici che, a loro volta, verranno consegnati ai magazzini di spedizione, poi ai negozi e infine nelle mani del consumatore finale. Un lavoro che rende l’idea del concetto di filiera. Eseguo in genere il primo scarico e davanti ho un lasso di tempo tale per poter arrivare ampiamente in tempo al secondo, di scaricare e ripartire per rientrare.

Arrivo in ditta alle 11,15 e, dopo aver presentato e timbrato le bolle, sono allora scarico alle 11.30. Mi accorgo che qualcuno mi sta dicendo qualcosa. Era il mio momento per tentare un coup de théâtre e inscenare un’urgenza per scaricare prima. Non lo faccio perché non è nella mia formazione mentale e perché penso che, visto l’orario e le pochissime pedane (14 per l’esattezza), avrebbero potuto tranquillamente scaricare e ricaricare prima delle 12. Chi è abituato alla movimentazione dei bancali sa che per caricare un bilico servono al massimo 45 minuti. Passano i minuti e vedo rallentare il passo nello scarico merci. 11.45: ancora niente. 11.50: un magazziniere si avvicina e dice: «Ci vediamo alle 13». Alla vista dei miei occhi iracondi aggiunge: «Sì, per mezz’ora».

Così torno in cabina e penso che non sa fare i conti, perché dopo la loro pausa pranzo sarebbe passata un’ora e mezza, più il tempo di scarico e ricarico. Quindi, invece di ripartire alle 12, sarei ripartita alle 14: due ore di ritardo. In quel momento di solitudine, chiusa nella cabina, dove per fortuna ho tutto ciò che serve per passare bene il tempo, rifletto sul concetto tanto usato, quanto poco applicato, di filiera.

«Filiera» deriva dal francese «filière», che trae origine dal latino «filum», «filo». E qui va notato che questo termine ricalca il suffisso «filo» (cinofilo, per esempio), che però deriva dal greco «philos», con cui si identifica qualcuno che è «amico» di qualche ambito. Nonostante il «filo di filiera» e il «filo di amico» derivino da lingue diverse e non hanno significati simili, esprimono però concetti che si combinano perfettamente. L’amicizia è un legame, un filo appunto, che ci tiene in contatto, in modo disinteressato, con un’altra persona che sa completarci. Allo stesso modo, la filiera è un insieme di soggetti economici (quindi non disinteressati) che operano per un obiettivo comune e il cui ruolo è a completamento dell’altro. Le merci prodotte non arrivano in tempo se non c’è un trasportatore che se ne occupa, che a sua volta ha bisogno di un magazziniere che prende in carico la consegna.

Se vogliamo mettere in pratica la filiera dovremmo concepirla come un rapporto in cui tutto funziona perché esiste una comune volontà in tal senso. Di fare in modo che tutto giri al meglio, prendendosi carico delle proprie responsabilità nei confronti degli altri e smetterla di pensare che i problemi siano sempre altrove, iniziando a collaborare per tenere il ritmo di un procedimento che funziona e porta tutti verso qualcosa di positivo.

Se ognuno investisse per migliorare i propri processi produttivi e logistici per ridurre le attese, gli sprechi, i pagamenti troppo lunghi e la noncuranza della qualità dei singoli soggetti, sarebbe un piacere poter lavorare insieme.

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