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Elisabetta Caracciolo: «Il camion, il posto più bello da cui guardare il deserto»

Per molti è una giornalista impolverata, al seguito delle corse. Per tanti altri è una copilota, tanto sono abituati a vederla in azione vicino a un volante. Quest’anno, alla Dakar, per un intero team di 70 persone – tutti uomini – è stata la manager che prende le decisioni. Perché alla fine, per Elisabetta Caracciolo non è importante scrivere o gareggiare con un veicolo: l’importante è fare del rally un autentico stile di vita

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Una vita sulle strade di tutto il mondo. Strade, però, ben diverse da quelle su cui siamo abituati a guidare. Una vita con le «Tasche piene di sabbia», come la definisce Elisabetta Caracciolo nel suo libro edito da L’Orto della Cultura. Oltre trenta Dakar, più di un centinaio di rally in tutto il mondo passando dall’Egitto al Marocco, dalla Russia alla Cina. Talmente tanti che anche lei ha perso il conto. Per fortuna, però, non ha perso i ricordi delle innumerevoli sfide affrontate con ruoli diversi, da copilota a giornalista, fino all’esperienza di quest’anno alla Dakar, quando per la prima volta ha vestito i panni di team manager di una squadra di cinque camion. Unica donna a capo di un team di 70 uomini. Ma guai a dirle che deve occuparsi lei della lavatrice…

Elisabetta, com’è iniziata la tua avventura con i rally?

I motori sono sempre stati una questione di famiglia, una passione condivisa con mio papà. Fin da piccola leggevo Quattroruote e a dodici anni salii per la prima volta a bordo di una moto, come passeggero naturalmente. La mia passione però è sempre stata il 4×4, tanto che negli anni 80 conobbi la Federazione Italiana Fuoristrada iniziando dei corsi come istruttore. Grazie a questa esperienza entrai in contatto con persone del mondo delle corse, piloti, membri degli staff. Di donne all’epoca ce ne erano pochissime, ma la proposta di diventare copilota non tardò ad arrivare e io accettai. Così, iniziò la mia avventura.

Più avanti hai unito due passioni – scrittura e motori – iniziando a seguire le gare anche come reporter.

All’epoca quel tipo di giornalismo si basava sui volontari, i cosiddetti «abusivi», e così fu anche nel mio caso. Il mio capo mi propose di scrivere pezzi mentre gareggiavo. Portai avanti le due cose per un po’ di anni: guidavo di giorno e scrivevo la sera, ma a un certo punto fu inevitabile fare una scelta. E scelsi la scrittura.

Quest’anno invece è la stata la tua prima volta in veste di team manager. Con una squadra francese di camion, la Boucou Assistance. Com’è andata?

Il team, uno dei più grossi, contava circa 70 persone, di cui ero l’unica donna. Una squadra composta da cinque mezzi per l’assistenza veloce agli altri team, ma comunque in gara. La proposta è arrivata a settembre dello scorso anno. Ho seguito con il team due gare prima della Dakar per vedere come lavoravano, i camion, la gestione logistica. Sono stata qualche tempo in officina con loro, in Francia, per vedere l’allestimento dei mezzi e poi siamo partiti. Non conoscevo la maggior parte dei componenti della squadra e comunque nessuno mi aveva mai vista lavorare nei panni di team manager. Siamo partiti, però, con il piede giusto.

Com’è la giornata tipo di un team manager durante una Dakar?

La Dakar è una gara itinerante. Come dice Jovanotti, «è una città che balla» perché ci si sposta continuamente. Quando la tappa parte, noi che forniamo assistenza ci troviamo con una cartografia sulla quale siamo tutti collegati e dalla quale vediamo i tempi e i mezzi che si muovono. Si tengono monitorati i team in attesa di chiamate di soccorso, che arrivano tramite satellitare. Noi inviamo la squadra e quella ci richiama quando ha finito. O, almeno, così dovrebbe essere. I problemi sono dietro l’angolo, ci sono sempre tanti particolari di cui tener conto. Si passano giornate al pc, si fa la spunta delle macchine che escono, si monitorano i ritardi.

Ti manca stare alla guida?

Sì, anzi quest’anno mi sono proposta più volte come copilota, quando c’era bisogno. La verità, però, è che le condizioni sono molto difficili, si prendono forti botte, direi che ci si sente come un frutto nel frullatore. Per questo si fanno anche allenamenti appositi prima di partire, per abituarsi al peso del casco, per esempio.

Ma come nasce la tua passione per i camion?

È una passione che ho da sempre. Agli inizi della mia carriera ho lavorato per TuttoTrasporti ed è stata un’avventura meravigliosa. Ero un’outsider in redazione, accettavo servizi che molti rifiutavano. Per esempio, l’allora direttore Lorenzo Raffo mi mandò al Brennero durante gli scioperi. Erano gli anni 90: ero l’unica donna e coinvoltissima; dormivo addirittura in camion. Così nel 2004 quando mi proposero di fare la Dakar in camion come copilota era quasi scontato, perché già facevo parte dell’ambiente. Quella prima volta, però, andò male perché i camion si ruppero quasi subito, in Marocco.

Meglio la Dakar in camion o in macchina?

Io consiglio sempre di fare la Dakar in camion. Cambia tanto, prima di tutto il punto di vista. In macchina non si vede niente fuori, invece il camion è come un grandangolo. E poi si va più forte, perché se anche il limite è di 140 km/h, in alcuni punti dove con la macchina è necessario rallentare con il camion puoi andare senza problemi. Per non parlare del fatto che c’è una solidarietà completamente diversa da quella delle altre classi. Quando sei in camion tutti si fermano per aiutarti, nessuno ti lascerà mai solo. La competizione c’è, ma c’è anche supporto. Quest’anno, per esempio, sei camion sono finiti in una sorta di catino. Sono rimasti lì tutti finchè non è stato tirato fuori l’ultimo veicolo.

L’unico anno in cui non hai partecipato alla Dakar, da trent’anni a questa parte, è stato il 2006. Cosa è successo?

Nel 2005 morì Fabrizio Meoni, grande pilota e grande amico, e così chiusi il capitolo Dakar. Nel 2006, per la prima volta, rinunciai ad andare.

Cosa ti ha spinto a continuare poi?

Nel 2007 TuttoTrasporti mi richiamò per fare la Dakar, sempre con il camion. All’inizio rifiutai. Per me era finita un’era. In effetti, però, era una proposta che non potevo rifiutare e alla fine ci ripensai. Per fortuna, perché, seppure non lo sapevamo, sarebbe stata l’ultima in Africa.

Di tante gare, qual è stata la più bella?

Una gara indimenticabile fu la Parigi-Mosca-Pechino del 1992. Per la prima volta un Paese che era sempre stato chiuso, dopo il colpo di stato dell’anno precedente, si apriva all’occidente con un evento sportivo di grandissima portata. Io ero lì come giornalista, invitata dalla Rothmans tramite la Gazzetta dello Sport. Ebbi la fortuna di partecipare anche alla ricognizione nella parte cinese. Un’esperienza durissima, dalla quale tornammo tutti provati, ma bellissima. Poi partì la gara. Attraversammo l’Europa con due prove speciali in Germania e in Polonia per poi arrivare a Mosca, per la prima volta.  Eravamo in pochi, tra l’altro, solo un paio di centinaia di persone. Viaggiavamo in elicottero tutto il giorno. Una volta atterrammo nella steppa russa e ci sedemmo ad aspettare le macchine. Arrivò un contadino a cavallo che si fermò a guardarci senza dire nulla, poi se ne andò. Tornò poco dopo con un cesto pieno di mele, una per ciascuno di noi. Si era fermato a contarci. Capitò più volte in quella gara. Quando arrivavamo in un nuovo villaggio, di solito tutti molto poveri, organizzavano delle feste per noi e ci donavano il loro cibo – anche se scarseggiava – in segno di benvenuto. La dimensione umana, che nelle gare non sempre si trova, è l’aspetto più bello.

Il tuo lavoro ti ha quindi permesso di viaggiare molto.

Sì e per questo mi reputo una persona fortunatissima. Ho vissuto esperienze incredibili, come dormire nella base spaziale di Bajkonur, vedere il villaggio olimpico di Soči mentre ancora era in costruzione, visitare il Tempio di Abu Simbel senza nessuno, all’alba. Sempre nel 1992, poi, per l’unica volta nella storia la Dakar divenne Parigi-Città del Capo. Attraversammo tutta l’Africa. Un mese di gara, un’esperienza pazzesca, a volte anche in condizioni pericolose. Maturi un livello tale di incoscienza vivendo queste gare che non ti sorprende più nulla. Quest’anno, per esempio, c’è stato un attentato alla Dakar. Un ordigno a bordo di una macchina. Non è successo nulla per fortuna, se avessero voluto colpirci veramente lo avrebbero fatto.

Hai raccontato che di donne, soprattutto agli inizi, ce n’erano poche. Tu sei stata una delle prime, spesso l’unica. Oggi com’è la situazione?

Ce ne sono molte di più rispetto agli inizi. Quest’anno, per esempio, le donne in gara come pilota erano circa una trentina. Ci sono invece molte più donne con ruoli dirigenziali, anche in squadre molto importanti. L’intera Dakar, per esempio, è gestita da un gruppo di donne.

Com’è relazionarsi con un mondo prevalentemente maschile?

Bisogna stare attenti agli equilibri. Un certo tipo di uomo vedrà sempre e comunque le donne con una visione stereotipata, ma non vale per tutti. La maggior parte ti rispetta e anzi c’è grande richiesta di donne nei rally. Serve carattere per farsi rispettare, certamente, ma la cosa migliore da fare per me è rispondere alla maleducazione con la gentilezza. Ricordo un aneddoto. Lo scorso ottobre mi trovavo in Marocco per un rally importante. Seduti al tavolo durante una riunione eravamo in quattro: io, un’altra team manager e due uomini. È arrivato un pilota che aveva saputo che avevamo la lavatrice e voleva chiederci di poterla usare. Guardò me e l’altra donna chiedendo se potesse lasciare a noi il bucato. Noi non abbiamo risposto, è stato il capo del team a intervenire chiedendogli scherzosamente se avesse intenzione di morire con una richiesta del genere. Si è salvato in corner, dicendo che non voleva essere offensivo, ma che guardava noi semplicemente perché a casa sua se tocca la lavatrice la moglie lo uccide. È finita con una risata.

Quali progetti hai per il futuro?

Sto ultimando il mio secondo libro in cui, dopo «Tasche piene di sabbia», racconto altre avventure ed esperienze in questi anni di rally. Nei prossimi mesi poi mi aspettano già diverse gare importanti, una in Giordania, l’altra ad Abu Dhabi.

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