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Francesca Morrone, dal magazzino al camion seguendo le orme di papà

Figlia di un camionista capisce fin da piccolissima che vuole seguire le orme del padre, anche se lui non è d’accordo. Testarda e determinata Francesca Morrone non si perde d’animo, inizia la carriera in magazzino e dopo una gavetta che non le riserva sconti arriva a bordo del suo camion, un posto che è suo da quattro anni e che non ha intenzione di lasciar andare, anche se da mamma sa bene che «senza il supporto delle aziende, spesso l’unica soluzione per le donne che vogliono crearsi una famiglia è sempre quella più amara»

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Il rumore metallico dei portelloni che si chiudono indica che il viaggio sta per iniziare. «Metto gli auricolari e sono pronta a partire». Dall’altra parte del telefono la voce è quella di una ragazza, è allegra. Si scusa per il ritardo, «Sai – ci dice – in questo lavoro gli imprevisti sono sempre dietro l’angolo». Il camion si accende, Francesca ingrana la marcia e parte sicura sulla sua strada. Missione giornaliera: muoversi in direzione Brescia per ritirare del caffè. «Di solito trasporto cose diverse, principalmente bancomat, slot machine, apparecchi medicali e frigoriferi nel milanese e nel bresciano, ma oggi è diverso».

Francesca Morrone, 34 anni, originaria di Genova ma milanese d’adozione, lavora come autotrasportatrice da nove anni. In realtà non ha sempre fatto l’autista. Anzi, il suo percorso di studi è stato «lontano anni luce», come le piace dire, dalle sue inclinazioni. «Sono figlia di un camionista –racconta – e quando ero piccola io e papà abbiamo passato tanti pomeriggi insieme a bordo. Questo ha fatto in modo che si creasse una bella complicità tra noi e ho capito subito che avrei voluto seguire le sue orme. Lui però non era d’accordo. Aveva immaginato per me un futuro più tranquillo, un lavoro da ufficio. Quando ero adolescente papà ha lasciato il camion e ha aperto un’impresa edile, desiderava continuassi con l’attività. Così per amor suo mi sono iscritta a ragioneria. O almeno ci ho provato perché dopo poco ho lasciato, non faceva proprio per me. Il problema è che poi ho scelto un percorso di studi ancora più distante dalle mie passioni». Ci aspettiamo di tutto, data la premessa. «Odontoiatria» dice infine Francesca. La domanda sorge spontanea: perché? «Beh, ho dovuto trovare un compromesso con mio papà che desiderava per me un lavoro redditizio, sembrava una buona idea». Non lo era. Francesca al terzo anno lascia ancora una volta gli studi, questa volta, però, pronta a inseguire il suo di sogno.

L’occasione arriva letteralmente servita su un piatto: «Lavoravo al porto di Genova come cameriera part-time quando un giorno mi ritrovai a servire da mangiare a quello che poi sarebbe diventato mio marito. Oggi ex marito – precisa –. Era un autista e passava di lì per uno scarico. Ci siamo innamorati subito». Dopo qualche anno di amore «pendolare», Francesca si trasferisce da lui, in provincia di Milano. L’avventura, quella sognata fin da piccola quando puntava gli occhi sulla strada davanti a sé dal cruscotto del camion del papà, può finalmente iniziare. «Io volevo guidare, certo, ma non volevo sconti. Ho scelto di fare la gavetta, unico modo per imparare davvero il mestiere, e così ho iniziato come magazziniera per un corriere espresso. Per la prima volta, però, ho tastato con mano il fatto che si trattasse di un mondo ancora poco aperto alle donne. Non tanto il magazzino, quanto l’autotrasporto. Ho lottato per farmi spazio, ho seguito corsi, ho preso i patentini per il carroponte e per il muletto, ma dopo quattro anni di tentativi ho capito che lì non avrei avuto possibilità come autista». Francesca non si arrende, trova un’altra azienda che la assume come magazziniera e nel frattempo studia per prendere le patenti superiori con la speranza che le si aprano le porte della cabina. «In quel momento, però, l’azienda non aveva la possibilità di assumermi come autista, così mi sono licenziata, ma questa volta con la promessa che sarei tornata appena si fosse reso disponibile un posto».

Quello che succede nel frattempo è un’esperienza intensa, non in senso positivo, per un altro corriere espresso. «È stato un lavoro deleterio». Il giudizio è schietto, sincero. «Correvo come una pazza per portare a termine decine e decine di consegne al giorno. Impossibile rispettarle tutte, sia per le ore che per le zone da servire, ma a contare erano solo i numeri, nient’altro». Le chiediamo se ricorda un episodio in particolare in cui si sia trovata in difficoltà. Non deve pensarci molto, i ricordi affiorano. «Quella volta che dovevo consegnare due o tre bancali a un ufficio comunale. Fogli di carta bianchi. La situazione che ho trovato è stata questa: via stretta, zona centrale, ascensore guasto. La mancata consegna non era un’ipotesi percorribile perché avrei rischiato un richiamo, così ho iniziato a sbancalare in mezzo alla strada, visto che non c’era altro posto, e a portare da sola i bancali. Nessuno mi ha aiutata. La motrice bloccava la strada e hanno iniziato a prendermi a male parole, ma io stavo solo facendo il mio lavoro. Sai, in quella situazione mi sono sentita inadeguata. Ho capito che stava venendo meno la mia dignità di persona ed è stata l’unica volta in cui ho pensato di mollare tutto». Le chiediamo se in quella situazione ha pensato di tornare in magazzino. «Al di là del mio sogno di guidare, in quel periodo mi stavo separando da mio marito e facendo la magazziniera, detto sinceramente, non mi sarei potuta mantenere. Nel frattempo avevamo avuto una bambina, Gioia, e così ho dovuto prendere in mano la situazione, non mi potevo accontentare».

Razvan Liviu Scutaru, oggi capo di Francesca, insieme a lei davanti a mezzi della Best Autotrasporti.

La ruota finalmente sembra iniziare a girare per il verso giusto quando Francesca viene contattata dalla Best Autotrasporti. C’è un posto libero come autista ed è suo. Francesca sale a bordo di una motrice 3 assi e non la lascia più. Quello è il suo posto da quattro anni. «Devo molto a Razvan, il mio attuale responsabile, che mi ha permesso di entrare a far parte del suo team. Razvan lavorava per la stessa azienda per la quale ero magazziniera, quella dalla quale mi ero licenziata con la promessa di tornare. Quando ha aperto la sua impresa e cercava autisti gli hanno suggerito il mio nome e, anche senza conoscermi, mi ha dato fiducia. In questi anni ha sempre cercato di fare in modo che un lavoro come il nostro, spesso molto pesante considerando la merce che movimentiamo, potesse adattarsi anche a me e alle mie caratteristiche fisiche».

Nel frattempo, anche Gioia è cresciuta e oggi ha undici anni, mentre Francesca ha un nuovo compagno con cui da un anno condivide la quotidianità e la passione per l’autotrasporto. Neanche a dirlo, anche lui è un autista. Mamma, autotrasportatrice e anche ex ginnasta (ha chiuso la carriera nella ginnastica artistica nel 2011 classificandosi 16esima ai campionati nazionali), le chiediamo come riesca a gestire al meglio il tutto. La risposta è ancora una volta schietta e sincera: «Ho imparato a fare i conti con il fatto che per molte persone potrei apparire come una madre snaturata perché passo poco tempo con mia figlia, ma la verità è che abbiamo trovato il nostro equilibrio e stiamo bene così. Gioia passa molto tempo con i nonni, i miei ex suoceri, a cui devo moltissimo per l’aiuto che mi hanno sempre dato. La mattina prima di andare al lavoro la accompagno da loro con il camion. È un momento della giornata speciale per noi che mi ricorda quando io da piccola salivo in cabina sullo Scania rosso di papà, un po’ come una tradizione che si tramanda. Ma senza l’aiuto dei nonni, del mio ex marito e del mio attuale compagno sarebbe stato impossibile. Famiglia e autotrasporto sono difficili da conciliare».

Un problema culturale o organizzativo? «Penso che ormai non sia più un problema di cultura, anche se le donne ancora non sono molte e i commenti maschilisti qualche volta capitano. Quello della famiglia è un discorso che ho affrontato proprio qualche giorno fa con il mio compagno, perché ci piacerebbe crearne una nostra. Mi sono resa conto che forse il problema più grande di questo lavoro è l’impossibilità di chiedere dei permessi. Mi spiego meglio: ogni viaggio ha troppe incognite, basti pensare solo al traffico, per cui non posso conoscere a priori le condizioni nelle quali mi troverò e se ho bisogno di qualche ora non posso certo far saltare un viaggio o non portarlo a termine. Per esempio, l’altro giorno mia figlia doveva andare dalla pediatra alle 17. Non sapevo se sarei rientrata per quell’ora, quindi o prendevo l’intera giornata o delegavo qualcuno per farla accompagnare. Penso che questo sia penalizzante per noi donne. Lo stesso vale per la maternità. Quando ho avuto Gioia lavoravo ancora in magazzino e non è stato un problema, anche il periodo dell’allattamento. Ma come autista questo sarebbe impossibile, vorrebbe dire lasciare l’azienda per diversi mesi e mi rendo conto che per un datore di lavoro può rappresentare un problema». Ci permettiamo di chiederle a quale conclusione sia giunta con il suo compagno. «Temo che senza il supporto da parte delle aziende l’unica soluzione sia sempre quella più amara per noi donne».

Salutiamo Francesca con un’ultima domanda, cosa ti piace di più del tuo lavoro?
«I sorrisi delle persone con cui ho il piacere di lavorare. Mi ricordano che anche quando sono stanca la passione è ciò che conta davvero. Ho incontrato tante persone in questi anni che mi hanno sempre aiutata non facendomi mai sentire l’anello debole, ma al contrario facendomi capire che qui c’è posto per noi donne».

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