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Autisti: il difficile rapporto tra generazioni

Si rovescia tanta pioggia contro il parabrezza. Ma si rovesciano anche tanti insulti ogni qual volta parlo di questo settore. Giudizi violenti provenienti da chi ha iniziato tempo fa a fare questo lavoro e ora è convinto che chi sale oggi su un camion non potrà mai fare abbastanza. Da dove proviene tanta rabbia? Dove nasce il bisogno di dare addosso a qualcuno soltanto perché non ha mai usato un Fuller? Ma soprattutto, quanto potrebbe essere migliore l’autotrasporto se autisti con esperienze diverse stabilissero una relazione migliore?

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Fuori piove, come fa da giorni ormai, rendendo la grigia Pianura Padana, ancora più cupa e inquieta. Certamente non il momento migliore per rispondere ai commenti comparsi sotto alcuni miei video – ironici peraltro – dedicati al nostro settore.
Insulti e offese vengono giù violenti come la pioggia di questa spiazzante primavera: «Cosa ne vuoi sapere tu?» Oppure: «Ne hai di strada da fare prima di poter parlare». Come se esistesse un chilometraggio giusto da compiere prima di poter esprimere un’opinione, come se esistesse una check list di cose da fare prima di potersi esprimere su un problema legato al proprio lavoro o per raccontare un episodio della propria vita professionale.
State tranquilli, le idee non vanno al tagliando.
E mentre immagino il mio cervello sul ponte, con la schiera di veterani intenta ad analizzare tutto ciò che secondo loro non va, mi chiedo: «Ma perché?». Perché esiste tutta questa rabbia verso i giovani (peraltro sempre meno) che vogliono intraprendere questo mestiere. Da dove nasce il bisogno di schierarsi per forza contro qualcuno?
Più guardo questi leoni da tastiera inveire contro chi non ha mai guidato il Fuller o non sa cambiare una gomma – come se al mondo non esistessero né altri cambi, né gommisti di professione – più mi rendo conto che, per queste persone, tu, chiunque tu sia, non sarai mai abbastanza.

Cantare un amore impossibile

Fuori piove e quando l’acqua riga il parabrezza e il motore al minimo fa da materasso alla pioggia che cade, io amo ascoltare una canzone di John Mayer, slegandola dall’immagine dell’amore umano e interpretandola come il canto di un amore impossibile tra noi e loro: tra le nuove leve e le vecchie generazioni di autisti.

«Non è un piccolo stupido momento,
Non è la tempesta prima della quiete.
Questo è il profondo e morente respiro
Di questo amore, nel quale ci siamo impegnati
Renderò tristezza la maggior parte delle cose
Tu diventerai una puttana perché ci riesci
Cerchi di colpirmi solo per ferirmi
Così mi lasci facendomi sentire sporco
Perché tu non riesci a capire
Stiamo andando giù,
E lo puoi vedere anche tu
Stiamo andando giù,
E sai che siamo falliti
Mia cara, stiamo ballando lentamente
In una stanza che sta bruciando»
(Slow dancing in a burning room – John Mayer)

Siamo tutti sullo stesso camion

Anche noi oggi, così come voi ieri, ci siamo impegnati in un lavoro che ha per entrambi lo stesso senso di magnificenza. Quello che provavate voi, un tempo, a guidare i vostri 190/48 o i 143, noi lo proviamo comunque a bordo dei nostri abitacoli di ultima generazione.
Quello che voi provavate sentendovi utili e importanti, è ciò che proviamo noi quando arriviamo in consegna con i nostri camion carichi di merce. Gli stessi carichi che portavate voi, un tempo, con centine magari meno scorrevoli e frigoriferi più rumorosi.

Uguali, diversi

Viviamo le stesse emozioni alla guida, mentre percorriamo chilometri lungo le stesse strade in cui voi avete segnato le traiettorie giuste per non far sbandare i rimorchi.
Ci piacciono gli stessi panorami, le stesse albe e tramonti che sfumano i colori dietro ai nostri parabrezza, mentre i nostri camion scalano le marce in automatico nel punto della salita dove voi dovevate coordinavare il corpo in maniera precisa per scalarle manualmente.
Facciamo lo stesso identico lavoro, solo in condizioni diverse. Una condizione, la nostra, che contempla ancora la fatica e il sacrificio. Una condizione sicuramente migliorata all’interno della cabina, ma troppo spesso peggiorata nel momento in cui si scende.
Ed è per questo che il trasporto sta ballando in una stanza che brucia. Perché noi, autisti di qualunque età, stiamo fallendo nella nostra relazione. Come in un amore alla fine dei suoi giorni, ci riserviamo solo parole offensive pronunciate per ferire, senza costruire nulla di positivo, come se il nostro unico obiettivo fosse quello di rovinare anche i ricordi di quello che è stato.

Immaginare una relazione nuova

Immaginate, invece, se esistesse una complicità piena, radicata. Se ogni veterano affiancasse una nuova leva e gli trasmettesse tutta la sua eredità in cambio di una potente gratitudine. Un trasporto in cui si crea l’eterno legame tra allievo e maestro.
Immaginate un trasporto in cui ci si eleva a custodi di un carico che va oltre quello fissato nel proprio rimorchio e ci si assume la responsabilità del sapere altrui.
Un trasporto in cui si dialoga tra vecchie e nuove generazioni, in cui si impara l’uno dall’altro al fine di migliorarsi sempre e senza sosta, per poter trasmettere a tutta la filiera la nostra professionalità.
Un trasporto in cui l’orgoglio dei padri (e delle madri) si tramanda ai figli per metterli in condizione di capire, soltanto tramite l’orecchio, cosa c’è nel camion che non va, o per consentire loro di raccontare a qualcuno che, se sei sprovvisto di blocca porte, puoi usare la cintura dei pantaloni per mitigare di notte la paura.
Immaginate un trasporto in cui il sacrificio dei veterani possa costituire per le nuove leve un miglioramento di condizione.
Immaginate un trasporto costruito insieme, mescolando continuamente vecchio e nuovo, per riuscire a prendere ciò che di positivo esiste nelle rispettive epoche e a portare il settore a ballare davvero in una stanza che brucia. Ma di passione e di amore.

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