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Dalle cabine spartane alle suite su ruote: viaggio nella storia del comfort sui camion

Dal 1896 a oggi il camion è cambiato tanto. Per seguirne la storia si possono percorrere le sue evoluzioni tecniche, i suoi perfezionamenti in funzione del trasporto, le sue dotazioni utili alla sicurezza o alla riduzione delle emissioni inquinanti. Una volta tanto, però, abbiamo scelto di seguire la scia delle comodità comparse progressivamente in cabine e messe a disposizione di chi gira il volante. Perché se ieri l’autista le attendeva per guidare meglio, oggi le pretende per non cambiare lavoro

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Il camion ha una storia lunga, avvincente, a tratti emozionante. Può insegnare tanto e su diversi versanti. Seguirli tutti è impossibile, anche perché conducono a destinazioni molto differenti. Il veicolo pesante, infatti, può essere visto come uno strumento produttivo, di supporto all’industria e al commercio e quindi la sua evoluzione corre parallela alla sua funzionalità a trasportare. Oppure lo si può valutare dal punto di vista meccanico, come una progressione scandita dalle prestazioni del motore e più in generale della catena cinematica. O ancora lo si può raccontare come un viaggio attraverso la sicurezza o verso le conquiste ambientali, avendo di mira le crescenti dotazioni utili, sul primo versante, a proteggere gli utenti della strada e, sul secondo, a diminuire le emissioni inquinanti.

Ma la storia che oggi ci piacerebbe raccontare è quella che si concentra sul comfort, vale a dire su quegli elementi concepiti, progettati e introdotti su un camion per rendere più agevole il lavoro dell’autista e quindi per consentirgli di affrontare il proprio quoti diano in maniera più comoda e serena. Il perché è presto detto.

Siamo nel bel mezzo di una transizione energetica e quindi in maniera fin troppo ossessiva e in parte noiosa ci si concentra sull’individuazione di una più alimentazioni in grado di non creare alcun turbamento all’ambiente. Soltanto che, parallelo a questo processo, c’è anche quello che vede sempre più autisti dileguarsi, fuggire a gambe levate dal settore. Il paradosso, quindi, potrebbe essere quello di poter avere un domani un camion migliore, più sostenibile e sicuro, senza però riuscire a trovare qualcuno che sia disponibile a guidarlo.

Ovvio che migliorare gli agi e le comodità presenti in cabina non aiutano a risolvere il problema, però rendere più confortevole il lavoro, rimuovere almeno qualche pezzo delle scomodità di cui questa professione è lastricata può fornire un piccolo contributo nel rendere più attrattivo il lavoro e magari per trattenere quelli che stanno maturando la decisione di scendere definitivamente dal camion. E ripercorrere i momenti in cui questi elementi di comfort hanno fatto la loro apparizione aiuta a far toccare con mano che effettivamente, prima di allora, gli autisti facevano più sacrifici e, dopo di allora, hanno afferrato il volante in maniera più agevole. Di conseguenza, se il comfort è riuscito a segnare una tale conquista e oggi potrebbe aiutare a fidelizzare gli autisti al lavoro, che sia benedetto! Ieri, oggi e anche domani.

Daimler, il numero 1

Nella storia del trasporto, quando si parla di «ieri», quello più lontano si incontra 129 anni fa.

L’anno di partenza è infatti il 1896, quello in cui in Italia la Gazzetta dello Sport inizia le pubblicazioni e ad Atene si organizza la prima edizione delle Olimpiadi moderne. A teatro Giacomo Puccini emoziona con La Bohéme, mentre nella scienza Henri Becquerel svela i segreti della radioattività. La nascita del camion è quasi una conseguenza di questo frizzante clima di innovazione tecnologica e intellettuale, frutto della seconda rivoluzione industriale.

Una cosa, però, va detta subito: il camion di allora è molto diverso da quello attuale. Il capostipite, quello costruito da Gottlieb Daimler, ha tutte le sembianze di un normale carro che, al posto dei cavalli da traino, sistema un motore. Insomma, cambia alimentazione, limita la fatica degli animali, ma per l’autista non è molto confortevole.

In ogni caso apre una strada e da lì a pochi anni, già agli albori del Novecento, nasceranno i primi modelli equipaggiati per la prima volta con una cabina utile a proteggere i conducenti dall’aria e dalle eventuali intemperie climatiche. MAN, per esempio, a metà degli anni 20 propone sul primo veicolo a trasmissione cardanica una cabina già sufficientemente comoda. Ma soprattutto aggiunge nell’equipaggiamento di serie gli pneumatici, un componente in grado di innalzare di molto il comfort di chi è al volante e che fino a quel momento per acquistarlo come optional bisognava spendere molto. All’epoca, infatti, un treno di gomme costava circa il 5-10% del prezzo totale del veicolo.

La brandina per il riposo dell’autista

Negli anni successivi, purtroppo anche grazie al primo conflitto mondiale, la necessità di trasportare merci, viveri e mezzi di sussistenza ai soldati, accelera lo sviluppo tecnologico. Il camion diventa cruciale, con pesi, misure e motorizzazioni sempre più avanzati. Così, negli anni 30, mentre a New York si inaugura l’Empire State Building, quasi certamente celebrato con un sottofondo swing di una Big Band Jazz, mentre in Germania Ernst Ruska mette a punto il microscopio elettronico, mentre nel mondo dello spettacolo la Disney, con Biancaneve, conquista una popolarità mondiale e Sinatra, con le sue canzoni, il soprannome di «The Voice», nelle carrozzerie di quartiere i carpentieri, a 34 anni dal primo prototipo Daimler, si mettono all’opera per creare le prime cabine letto.

In realtà, le case costruttrici dell’epoca propongono solo la cabina giorno occupata dal posto guida. Qualcuno, però, intuisce che attorno a questo spazio si possono assemblare delle brandine su cui gli autisti sono in grado di stendersi e riposare. L’idea di brevettare questa geniale innovazione a livello industriale venne proprio a un carrozziere italiano, nato a Torino nel 1922, il cui nome è ancora celebre come costruttore di allestimenti: Viberti.

Dietro al sedile compare il letto

Facciamo un ulteriore balzo di trent’anni, superando il secondo conflitto mondiale e la sua lunga scia di distruzioni. Proprio negli anni della ricostruzione il settore dell’autotrasporto, così come l’intendiamo oggi, muove i primi chilometri. A fornirgli gli strumenti utili a tale scopo sono tante concause: la fuga dalle terre di tanti contadini che trovano sul camion un lavoro più redditizio; i residuati veicolari bellici lasciati dagli Alleati che si possono acquisire a prezzi vantaggiosi; gli investimenti pubblici necessari a ricucire un paese frammentato convogliati verso le strade perché più rapide da costruire rispetto alle ferrovie.

L’autotrasporto, però, proprio perché nasce per supportare il bisogno di una ricostruzione urgente, assume subito una logica di sacrificio. È uno sforzo che paga doppiamente, perché se per un verso gratifica le tasche di autisti e padroncini, per un altro accompagna l’economia del paese verso il boom economico, esploso nella seconda metà degli anni Sessanta in particolare al Nord, dove giungeranno dal Sud i tanti lavoratori richiesti dalle industrie nascenti. Ma tanto più le fabbriche diventano numerose, tante più merci c’è bisogno di muovere.

Lo Stato incentiva il mestiere di camionista, concedendo licenze in maniera semplice e poco burocratica. In questo clima ricco di innovazione, in cui il comfort entra nelle case sulla spinta dei nuovi elettrodomestici e dove il benessere raggiunto lascia spazio anche alla cultura, i camion assistono al debutto delle prime sleeper cab, cabine progettate per accogliere il camionista nei lunghi viaggi. OM Titano e Lancia Esatau diventano icone di un’epoca, a cui si affiancherà presto anche il DAF 2600.

La testa appoggiata, una conquista ergonomica

L’autotrasportatore, in quegli anni, diventa a tutti gli effetti una professione, un servizio organizzato in modo imprenditoriale e non più soltanto una declinazione di un lavoro artigianale. Da qui in poi il settore dei veicoli pesanti inizierà una crescita costante, condotta con costanti miglioramenti. Esemplare di quell’epoca l’introduzione sul Lancia Esagamma della coibentazione e del parabrezza panoramico accanto alla cabina letto, segnando un grande punto di svolta per il comfort dei conducenti, reso evidente dall’adozione dei primi rudimenti di ergonomia.

D’altra parte, la scienza, in quel frangente, inizia a studiare l’interazione tra individui e tecnologie. Le teorie dello psicologo Hywel Murrell, divenute parte integrante del processo di ricerca proprio negli anni 60, danno vita all’Associazione internazionale di ergonomia e alla Società Italiana di Ergonomia. E si deve anche a questi studi la modifica del codice della strada introdotta nel 1959 per consenti re l’utilizzo del poggiatesta, vietato fino ad allora perché si pensava facesse addormentare l’autista, e dell’idroguida, una volta che ci si rese conto che non rendeva la guida instabile. Nello stesso anno Volvo brevetta la cintura di sicurezza a tre punti, inventata da Nils Bohlin, ingegnere aeronautico alle sue dipendenze, ma ne concede a tutti l’utilizzo. Una scelta che ha aiutato a salvare la vita a circa un milione di persone.

La conquista dello spazio

Lasciamo scorrere qualche decennio e sempre dalla Svezia giunge una duplice innovazione. Scania propone dall’inizio degli anni 70 la Serie Zero, caratterizzata da spazi interni più grandi e comodi, mentre Volvo con il Globetrotter F12, alla fine della stessa decade, lancia l’idea della cabina extra large in cui si può stare in piedi grazie a un’altezza utile interna di 187 cm.

Il primo pavimento piatto, invece, vide la luce in Francia in casa Renault Trucks e più precisamente all’interno del Renault AE, conosciuto da tutti con il nome Magnum, con cui era identificata la sua versione di lusso, disegnata da Marcello Gandini, prestigiosa firma del design che aveva dato le forme anche alla Lamborghini Miura e a tantissime altre super car.

Sempre in questo decennio, sulla scia dell’ergonomia e del conseguente sviluppo della sicurezza, vennero concepiti i primi retarder elettromagnetici, utili per limitare il consumo di freni e per ridurre quindi il rischio di incidenti dovuti alla loro usura, mentre il climatizzatore diventa un accessorio di serie.

Così ci avviciniamo agli anni 80, quando videro la luce tanti camion che hanno lasciato un segno nell’immaginario dei trasportatori, forse proprio perché hanno segnato fondamentali tappe di innovazione sul versante del comfort. Già nel 1975, per esempio, nasce con il marchio Ford il Transcontinental, equipaggiato con sospensioni dotate di quattro molle a spirale, ammortizzatori e barra anti rollio, tutti ottimi supporti per la schiena degli autisti . In più nell’alta cabina, montata più distante dalla strada per fare spazio al motore, trovavano spazio per due cuccette.

Nel 1980, invece, vide la luce lo Scania Serie 2 e per la prima volta la posizione di guida assunse un’impostazione di tipo automobilistico in quanto il volante non era più sistemato parallelo alla strada, ma inclinato all’indietro e quindi molto più comodo da governare.

Armadio, frigo e… due assi per un turbo

Nel 1984 arriva sul mercato un mito italiano marchiato Iveco. Anticipato dal 190.35, che adottò un V8 assecondando una normati va inedita dell’epoca che per rendere più fluido il traffico autostradale, impose ai camion per lungo raggio una potenza minima di 352 cv, il TurboStar si fece apprezzare anche per le innovazioni dentro e fuori alla cabina. All’esterno monta uno spoiler sopra al tetto integrato nel veicolo e studiato in galleria del vento e fender laterali per evitare turbolenze. Ma è dentro alla cabina che dà il meglio. Qui, sempre grazie a una cabina maggiorata, viene ricavato un angolo per creare una sorta di armadio in cui l’autista può appendere gli abiti, mentre nella plancia compare il primo frigorifero integrato. Infine, per migliorare l’ergonomia del posto guida, la pedaliera viene posizionata nel punto in cui un autista di media altezza l’avrebbe potuta facilmente raggiungere. In livrea rossa con tanto di gambero sul parasole, divenne uno dei protagonisti principali della fortunata serie tv «Due assi per un turbo».

In questi anni i camion iniziano a diventare motivo di orgoglio, di status sociale, di romanticismo avventuroso, ma anche più tecnologici. Il terzo asse sterzante elettroidraulico, a cinquant’anni dal primo comandato meccanicamente, arriva negli anni 80 e dieci anni più tardi Mercedes installa il primo cambio automatico Eps sugli ultimi Ng e i primi Sk.

Come guardare all’innovazione

Da qui in poi inizia un’ascesa incessante di innovazioni tecnologiche che per molti segna la fine di un «mestiere dai saperi antichi» e l’inizio di un’epoca dove l’integrazione uomo-macchina si basa più su soft skills che su capacità tecniche. Se guardassimo questo percorso con gli occhi di una ipotetica famiglia con una lunga tradizione del trasporto, potremmo osservare come ogni generazione lascia a quella successiva una necessità da soddisfare, una sfida da vincere per migliorare il presente e ancora di più il futuro.

Nonostante alcune tecnologie non vengano capite subito, ma anzi servano diversi anni per farle accettare completamente, è evidente la loro capacità di coniugare sempre di più la conquista del comfort dell’autista con la sicurezza e l’efficienza del veicolo. Prendete per esempio le attuali mirror cam, le telecamere che sostituiscono gli specchi: chi non le ha mai utilizzate le rifiuta, anche se il loro contributo a guidare meglio e più rilassati, in particolare di sera o in condizioni climatiche avverse, è lampante. Così come è evidente che il loro utilizzo mentre mitiga la fatica di chi guida, aiuta anche a viaggiare in modo più sicuro. Forse è questo il grande insegnamento che ci può lasciare il passato, quello cioè di non valutare l’innovazione al suo apparire, ma di farla decantare per qualche tempo nel quotidiano. Se è veramente utile, cioè, lo si capirà solo lavorando.

Si ringrazia per la consulenza Massimo Condolo, giornalista e storico

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