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Il governo rilancia il Ponte sullo Stretto. Cosa ne pensano gli autotrasportatori?

Sono tutti favorevoli. Non solo per l’accorciamento dei tempi di transito, ma anche per i costi eccessivi e per la difficoltà di combinare i viaggi con gli orari dei traghetti. Penalizzati soprattutto l’ortofrutta che deve arrivare presto sui mercati e l’ADR per gli obblighi di sicurezza

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La guerra è ricominciata. Non quella in Ucraina per la conquista dello stretto di Kerch che divide (o unisce) la Russia alla Crimea, ma quella ben più antica anche se meno sanguinosa – sullo Stretto di Messina che da 150 anni divide in due l’Italia, non tra Sicilia e continente, ma tra i fautori dell’opera e i suoi detrattori. Quando il 9 novembre scorso Matteo Salvini, nuovo vice presidente del Consiglio e (in questo caso, soprattutto) ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, convocò Roberto Occhiuto e Renato Schifani, rispettivamente presidenti delle due Regioni Calabria e Sicilia (entrambi militanti come Salvini nella maggioranza di centro destra) per discutere l’argomento e prima ancora che il Consiglio dei ministri riattivasse il 22 novembre la Stretto di Messina spa, società nata nel 1981 e messa in liquidazione dal governo Monti nel 2013, i due eserciti hanno rispolverato le armi – da qualche anno un po’ arrugginite – e sono scesi in campo. In tutti questi anni, con espressioni corrusche e rutilanti sono intervenuti pro o contro il Ponte (anzi, il «collegamento stabile») politici, giornalisti, intellettuali, economisti, ingegneri, architetti, ambientalisti, imprenditori, banchieri, geologi, magistrati, ferrovieri, anche cantanti (c’è una canzone-valzer, «Un ponte sullo Stretto», del gruppo folkloristico siciliano Privitera che dice: «Sia sempi biniritto chillu chi lu farà») e perfino Topolino ha detto la sua (anzi Zio Paperone, nel 1982, con «Zio Paperone e lo Stretto di Messina»). E gli autotrasportatori?

A dire il vero, per tutti ha esultato il presidente di Conftrasporto-Confcommercio, Paolo Uggè: «Il ponte va fatto. Lo sosteniamo fortemente da tempo: il progetto deve partire per collegare il popolo siciliano e l’economia del nostro Paese al Nord Europa». Insomma, è una questione strategica. Ma non solo, per chi lavora tutti i giorni sulla strada la questione strategica è fatta di costi e di tempi. «Tempo e denaro sono tutto per un trasportatore», sintetizza Nicola Morfino, del Consorzio autotrasportatori catanesi (CAT). E oggi tempo e danaro sono due pesanti penalità per chi guida il camion.

Costi sproporzionati

La relazione del Gruppo di lavoro, insediato dal precedente ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini, per la «valutazione di soluzioni alternative per il sistema di attraversamento stabile dello Stretto di Messina», riporta (dati 2019) un traffico annuale di 796.054 veicoli pesanti, suddivisi fra cinque compagnie di traghetti, con tariffe che oscillano – per la corsa semplice – fra i 45,50 e i 55 euro, per i veicoli fino a 4,5-5,5 metri di lunghezza (ma già schizzano a 93 per un’andata e ritorno in giornata) e aumentano, metro per metro, arrivando – nella linea Caronte&Tourist, la più antica e la più frequentata dai mezzi pesanti – a un massimo di 243 euro per i veicoli di 18 metri per la sola tratta verso Villa San Giovanni, ma il ritorno verso Messina ne costa «solo» 153,50 e l’andata e ritorno entro 30 giorni ne costa 302. Più 3 euro a tratta, comunque, per tutti i veicoli commerciali a prescindere dalle misure, per non meglio specificati «servizi di impresa portuale».

Un salasso. Ma la politica dei prezzi alti evidentemente rientra nelle strategie della società, dal momento che, nel luglio scorso, la Caronte&Tourist è stata condannata dall’Autorità Antitrust a pagare una multa di oltre 3,7 milioni di euro perché «le tariffe applicate da C&T ai passeggeri con autoveicolo risultano sproporzionate rispetto ai costi sostenuti (eccessività) e tale sproporzione è irragionevole rispetto al valore economico del servizio reso (iniquità)».

Una sproporzione della quale gli autotrasportatori siciliani si lamentano da tempo. «Per un quarto d’ora di navigazione su Villa San Giovanni», fa rapidamente il conto Morfino, «si pagano 200 e rotti euro, quando per andare a Napoli se ne pagano 400 e sono 12 ore di navigazione». «Sono costi inaccettabili», gli fa eco Mimmo Cattafi, CEO di Cattafi Transervice di Milazzo, piante e fiori in tutta Europa. Noi lavoriamo anche con l’Inghilterra: tra Calais e Dover, con il traghetto, sono due ore e mezza di mare e si pagano 300 euro per l’andata e il ritorno. Da Messina a San Francesco sono 15 minuti e costa quasi quanto cinque ore sulla Manica».

Il tempo risparmiato

Ma per il ponte, comunque si pagherebbe un pedaggio. «Ovviamente», ammette Mario Di Martino, vice presidente di Anita e amministratore delegato della Fratelli Di Martino Trasporti di Catania, «ma secondo me sarà più basso del costo del traghetto – che è una cifra spropositata – e seppure per assurdo fosse uguale, avremo risparmiato tempo. E noi trasportatori che cosa facciamo se non comprare e vendere tempo?».

Perché ad allungare i tempi non è soltanto la traversata – quei 20-30 minuti – ma anche le operazioni di imbarco e di sbarco con relative attese che nella stagione turistica – oppure con qualche nave in meno, magari in darsena per riparazioni – possono arrivare a punte di 3-4 ore. Come non pensare ai 3-4 minuti che basterebbero con il Ponte? «Oggi ci vogliano in tutto almeno tre ore», calcola Giuseppe Bulla, vice presidente di Assotir che è di Messina e conosce bene la realtà locale, «e il Ponte faciliterebbe soprattutto chi fa i servizi interregionali».

Ma se ai tempi di attraversamento e a quelli di attesa si aggiungono quelli per far coincidere il viaggio con gli orari dei traghetti pure chi fa tratte più lunghe avrebbe un grande vantaggio dal ponte. Anche Di Martino calcola in tre ore il tempo complessivo, ma ricorda che «le frequenze non sono sempre uguali, perché le navi d’estate hanno una frequenza, d’inverno ce ne hanno un’altra». E Cattafi che deve andare più lontano e ha bisogno di partire di notte sottolinea che le corse notturne «non sono ogni mezz’ora, ma almeno ogni ora e mezza». In più c’è il problema dei tempi di guida e di riposo, ricorda Morfino. Far quadrare i viaggi con gli orari dei traghetti e i tempi di guida è un puzzle aggravato dalla carenza degli autisti. «Se io ho dieci autisti e ognuno di loro risparmia due-tre ore per l’attraversamento alla fine è recupero di capacità».

L’ortofrutta bloccata

In questo senso il puzzle più complicato ce l’ha il trasporto a temperatura controllata. «A volte, partendo da Milazzo e con 3-4 ore di attesa per il traghetto, per arrivare in Olanda, siamo costretti a fare una seconda sosta di 9 ore, che vuol dire arrivare a destinazione con 9 ore di ritardo». Un disastro per un’azienda che si muove con tempi calcolati al minuto: due partenze alla settimana, il lunedì per arrivare la notte tra mercoledì e giovedì e portare le piante sul mercato all’alba del venerdì e il venerdì per arrivare la notte tra la domenica e il lunedì. «Se la merce non arriva nella notte, ma a mattina inoltrata resta in gran parte invenduta». Lo stesso succede per il ritorno: bulbi di tulipano e rose d’Olanda (ma in realtà arrivano dal Sud Africa per via aerea) sul camion patiscono. «Le piante», ricorda Cattafi, «hanno bisogno di luce e nel buio del cassone soffrono. Se ci fosse il Ponte, con due autisti e 18 ore di guida scaricherei in tempo nei mercati di destinazione».

È un problema anche per il trasporto di ortofrutta. Bulla sottolinea che «per la Sicilia l’agricoltura è al primo posto. Ma poi, ricorda Cattafi, «a Roma o a Napoli arrivano prima le arance dalla Spagna e addirittura dal Cile che quelle che partono dalla Sicilia che alle due di notte sono già ai Mercati generali. I camion siciliani arrivano 4-5 ore dopo, anche perché bisognerebbe riorganizzare tutto il sistema di raccolta e di impacchettamento». L’alternativa è l’intermodalità – partire dalla Sicilia e sbarcare il camion a Salerno o a Livorno, insomma a metà strada – ma anche lì non sono tutte rose e fiori.  «Sulla Catania-Napoli o sulla Messina-Salerno», spiega Cattafi «le partenze non coincidono: avremmo bisogno di una Messina-Napoli con partenza anticipata alle 22, anziché alle 2 di notte. Ma anche lì i prezzi sono proibitivi».

L’intermodalità e l’ADR

Certamente, tuttavia, le autostrade del mare hanno fornito al traffico di camion tra Sicilia e continente – il cosiddetto RoRo (Roll on-Roll off) – qualche sfogo alternativo: tra il 2014 e il 2017 la movimentazione da Catania è crescita del 27% in tonnellaggio. Ma nella segmentazione dell’autotrasporto l’intermodalità è una tipologia a parte, con competenze e attrezzature specifiche. «L’intermodalità esige un tempo di organizzazione», spiega Di Martino. «Devi avere le strutture, devi avere la mentalità, devi avere un modello di lavoro che non costruisci in sei mesi». Mentre Maurizio Ciccotelli, del Consorzio Cipaa di Popoli, Pescara, individua la linea di confine: «L’intermodalità è una tipologia di trasporto che funziona se facciamo viaggiare i container o magari solo i semirimorchi, ma se dobbiamo salire con il trattore e con l’autista, sui traghetti o sui treni, l’intermodalità comincia a essere una modalità di trasporto non così vantaggiosa».

Per questo, sia Di Martino che Morfino si dicono convinti che anche se si farà il Ponte sullo Stretto, l’intermodalità non ne risentirà molto. Soprattutto nel traffico ADR che già oggi, sia pure tra mille difficoltà e con costi superiori alle altre tipologie di merce, preferisce traghettare sullo Stretto anziché imbarcarsi su rotte più lunghe.

Un viaggio di sola andata tra Villa San Giovanni e Messina con una cisterna al di sotto dei 15 metri costa, secondo le tariffe di Caronte&Tourist, 675 euro e sale a 796,50 oltre quella lunghezza. Poi ci sono le convenzioni e gli abbonamenti. La Cipaa di Ciccotelli, che effettua 6-7 attraversamenti a settimana, paga meno, ma sempre una bella cifra, pur tenendosi al di sotto dei 15 metri. Ma l’alternativa è peggiore. «Non prendiamo le autostrade del mare», spiega Ciccotelli, «perché con l’ADR ci sono prescrizioni. Ho fatto delle prove in passato, sulle tratte Salerno-Catania e Napoli-Palermo. Però non ho trovato dei risparmi che vadano a compensare i problemi che ha l’ADR nel salire su una nave. I traghetti per noi sono sempre un enigma».

Le strade e le ferrovie

Col Ponte, insomma, è meglio anche per l’ADR che – viaggiando su strada aperta – non sarebbe soggetto a quelle prescrizioni a cui deve ottemperare sulle navi o nei trafori. E il favore degli autotrasportatori per il Ponte arriva anche a replicare agli avversari dell’opera. Uno degli argomenti per sostenere l’inutilità del Ponte è la mancanza di infrastrutture stradali e ferroviarie adeguate a monte e a valle dell’opera. Ma Di Martino replica: «C’è chi dice che mancano le strade interne, ma le strade interne si fanno una volta che c’è il Ponte» e Bulla, per le ferrovie, rilancia: «La modernizzazione della rete ferroviaria passa dal Ponte».

In realtà, sempre secondo lo studio dell’allora ministero per le Infrastrutture e Mobilità sostenibili, l’accessibilità delle province di Sicilia e Calabria, attualmente al 51% rispetto a quelle più accessibili del Nord Italia, dovrebbe crescere nei prossimi anni di quote significative – tra il 10 e il 30% – grazie agli investimenti del PNRR, dell’Allegato al DEF 2020 e del Contratto di Programma RFI. E dunque discutere oggi se vada realizzato prima il Ponte o le strade e le ferrovie a monte o a valle e un po’ come dibattere se è nato prima l’uovo o la gallina.

La feroce lotta ingaggiata tra nemici e sostenitori del Ponte sullo Stretto di Messina viene condotta da decenni senza esclusione di colpi, al punto da far sbiadire l’eroica figura di Orazio Coclite che da solo difese ponte Sublicio dagli Etruschi che volevano invadere Roma. Ma accanto alla battaglia sull’opera ce n’è un’altra, in parte collegata alla prima, seppure certamente più appassionante per i linguisti: che si faccia o no, si scrive Ponte (con la maiuscola) o ponte (con la minuscola) sullo Stretto?
Perché l’uso corretto delle maiuscole non è ben definito. La regola di base dice che la maiuscola è d’obbligo a inizio frase e per i nomi propri. Poi aggiunge che i nomi «porta», «ponte», «palazzo» quando accompagnano un nome proprio vogliono la maiuscola: «Porta Romana», «Palazzo Pitti», «Ponte Vecchio». La regola, dunque, vale anche per «stretto», che in questo caso va maiuscolo perché accompagna il nome proprio «Messina». E allora, per estensione: Ponte sullo Stretto. Con la maiuscola appunto, che è usata dalla Treccani, ma non da Wikipedia che scrive «ponte» con la minuscola e lo definisce «futuribile».
E, dunque, l’uso della minuscola diventa un modo per sminuire l’importanza dell’opera. Perciò, come non notare che Il Fatto Quotidiano, quotidiano fortemente contrario all’opera, usi la minuscola, mentre Il Sole 24 Ore, sull’altro versante, preferisca la maiuscola. A metà strada, il Corriere della Sera usa la minuscola quando c’è il seguito «sullo Stretto» e invece la maiuscola quando la parola «ponte» è isolata. E al di sopra di ogni sospetto si pone Legambiente che pur nelle sue feroci critiche, scrive sempre «Ponte» con la maiuscola.
Sono, tuttavia, indicazioni da prendere cum grano salis, non sempre rispettate e spesso casuali. Paradossalmente sul sito Webuild – il Gruppo che avrebbe dovuto realizzare l’opera, prima che il governo di Mario Monti decidesse di accantonarla – non c’è una regola: «Ponte» e «ponte» compaiono come capita. Ma questa storia che la maiuscola sia sgradita a chi è contrario al collegamento, in qualche modo lo sottolinea il quotidiano on line Linkiesta, scrivendo, con ironia: «Il Ponte per eccellenza, quello da scrivere con la P maiuscola», quasi a prenderne le distanze e ribadisce «Che ci frega del mare, noi facciamo il ponte, anzi, il “Ponte”, avrà pensato Salvini». Ma poi gli scappa, freudianamente, una «p» minuscola che dovrebbe proprio essere maiuscola nel sottolineare il «nuovo fermento sul Ponte con p maiuscola».
L’Accademia della Crusca non si pronuncia, ma affronta il tema delle maiuscole con un contributo del grande linguista Giovanni Nencioni. «Quando una parola o una sequenza di parole indicano non un concetto, ma un individuo, un ente concreto e unico, devono cominciare con la maiuscola», scrive Nencioni, confermando la regola, per poi non accettarla, perché è contrario a «entificare» un concetto. E per sostenere il suo ragionamento si fa aiutare da Alessandro Manzoni: «Per fare un esempio famoso, quando si designa (anche da studiosi e critici) con l’iniziale maiuscola quel personaggio che Manzoni si ostina a designare con la minuscola (l’innominato) perché senza nome è e deve restare. Non è infine questione di ortografia; è questione di sentimento della lingua, lecitamente diverso».
Eccolo. È il «sentimento della lingua» dei detrattori del «ponte». Fosse per loro lo chiamerebbero proprio l’«innominato». Purché, naturalmente, con la minuscola.

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