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L’autotrasporto chimico chiede un tavolo con la committenza. Quando standard fa rima con sicurezza

«A ciascuno il suo». Sembra questa la legge in vigore nel trasporto di prodotti chimici, dove una parte considerevole degli impianti utilizza per connettere le autocisterne ai serbatoi di scarico i raccordi più disparati. Così, spesso, soprattutto nelle aziende meno strutturate, diventa onere dell’autista realizzare una linea di travaso in modo quasi estemporaneo, con tutti i rischi che ne conseguono. Ma non sarebbe opportuno, come accade in altri paesi, standardizzare i raccordi a beneficio di una movimentazione sicura?

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Immaginate di dover intraprendere un lungo viaggio e di dovervi portare dietro un piccolo elettrodomestico. Un phone, per esempio. In quanti paesi riuscireste a utilizzarlo infilando la spina nella presa? Di certo non molti. Per la semplice ragione che non esiste, nemmeno all’interno dell’Unione europea, uno standard universale per le prese. Quasi sempre, quindi, bisogna ricorrere a prolunghe e adattatori, che se usati male possono esporre al rischio di prendere scosse o di far saltare l’impianto elettrico.

Nel trasporto chimico succede un po’ la stessa cosa, amplificata però all’ennesima potenza. Nel senso che «anche in questo segmento di mercato – ci spiega Maurizio Ciccotelli, presidente del cda di Cipaa, azienda di Popoli (Pe) con cinquant’anni di esperienza alle spalle – ogni qual volta ci si reca in un deposito o in uno stabilimento per caricare o scaricare un prodotto, c’è bisogno di mettere in collegamento la cisterna con il serbatoio di destinazione senza poter confidare su uno standard unico. Così, anche stabilire una connessione elementare è praticamente impossibile. Perché spesso, bisogna ingegnarsi portandosi dietro un quantitativo considerevole di raccordi. Per stare tranquilli ne serve almeno una dozzina e non è detto, peraltro, che la connessione risulti perfetta».

Ma il parallelismo con il phone termina qui. Per la semplice ragione che i problemi di connessione in quel caso si presentano quando ci si reca in paesi più o meno lontani. Nel mondo del trasporto chimico, invece, possono verificarsi spostandosi non soltanto da una Regione all’altra, ma anche da un Comune all’altro o, paradossalmente, all’interno di uno stesso sito industriale, relativamente a impianti diversi. Com’è possibile? «Ho provato a chiedere informazioni – risponde Ciccotelli – e mi è stato risposto che tutto dipende da chi ha installato l’impiantistica al momento della costruzione del sito. Dal che ne ho dedotto che in Italia ognuno può fare come vuole. Che non significa che gli impianti siano fatti male o che i raccordi di connessione non siano di qualità. Ma che non esiste un indirizzo dettato dall’alto, una logica che punti a omologare le situazioni in ragione di una superiore esigenza di sicurezza».

Ma soprattutto il parallelismo si ferma di fronte alle conseguenze a cui espone il rischio di connessioni improvvisate. Perché nel caso del phone, come detto, può comportare il danneggiamento dell’impianto elettrico o dello stesso elettrodomestico, nella chimica se il raccordo non fosse perfetto o se addirittura si staccasse la connessione, si rischia lo sversamento di materiali altamente pericolosi, in grado di provocare danni, anche letali, alle persone.

Lo scarico con destinazione «serbatoio»

Ciccotelli, in realtà, specifica che per fortuna il numero di incidenti gravi – almeno nella sua esperienza – è tutto sommato circoscritto, ma «quei pochi accaduti, viste le dolorose conseguenze prodotte, non si dimenticano facilmente. Ed ecco perché se non si vogliono correre rischi bisogna lavorare di prevenzione. E il metodo migliore per farlo è quello di «affidarsi a un organismo comune che metta tutti gli attori coinvolti intorno a un tavolo, per farli confrontare sui problemi esistenti e per farli incontrare nell’individuazione di raccordi standard, accettati da tutti, un po’ come accade in buona parte degli altri paesi europei».
Tale invito a trovare un organismo comune non è casuale. I caricatori di prodotti chimici sono estremamente differenziati: ci sono grandi multinazionali del settore o di quello farmaceutico, ma ci possono essere anche commercianti di seconda fascia. E già oggi non tutti si comportano in modo identico. Perché nelle realtà più strutturate è diffusa la consapevolezza del rischio che si corre e della responsabilità a cui ci si espone quando si verifica un incidente all’interno del proprio sito. E per questo le aziende chimiche più importanti tendono a gestire in prima persona l’operazione di carico e scarico. Il problema si manifesta, invece, quando i commerciali di alcune aziende vendono un prodotto indicando come modalità di consegna «nel serbatoio» e così sollevano il destinatario dal dover mettere a disposizione dell’autista allo scarico un’apposita pompa di travaso, delle manichette e un operatore. «Qualcuno – specifica Ciccotelli – ha per lo meno il buon senso di informarci della situazione e noi integriamo il costo del trasporto con un piccolo extra da girare in parte all’autista. Ma il più delle volte ti presenti nello stabilimento di destinazione e, senza essere preavvertito, ti trovi a farti carico di tutto. E questa situazione va assolutamente evitata non soltanto per salvaguardare i nostri conducenti da incidenti, ma anche per tutelare i destinatari della merce, che spesso non considerano a sufficienza il fatto che se l’autista del camion si fa male “in casa loro”, la responsabilità ricade sulle loro spalle anche se lo scarico è stato fatto con una pompa e con raccordi arrivati dall’esterno». D’altra parte, un autista è pagato per fare altro. E se poi per lavorare – aggiunge il manager della Cipaa – «cerca di collaborare e in qualche modo si ingegna, rimane il fatto che non è un idraulico in grado di costruire una linea di travaso. E non bisognerebbe chiederglielo anche perché non ne potrebbe comunque essere responsabile».
Senza considerare che, gravando di troppi rischi e responsabilità una professione già carente in termini di vocazioni, si finisce per allontanare da questo segmento di mercato anche qualche giovane volenteroso.

I tanti vantaggi del raccordo unificato

Ma non è tutto perché se si utilizzassero raccordi standard si potrebbero ottenere benefici su tanti livelli. Il primo è quello relativo al miglioramento delle relazioni tra anelli della catena logistica, perché – come nota Ciccotelli – «lavorando in modo improvvisato le contestazioni e le lamentele sono all’ordine del giorno. Io ne ricevo almeno 30-40 all’anno e riguardano sempre uno scarico reciproco di responsabilità, riferite per fortuna a piccoli inconvenienti, come può essere uno sgocciolamento limitato».
In più, aggiunge il manager abruzzese, se tutti potessero riferirsi a un metodo standard di movimentazione sicura dei prodotti chimici, anche le operazioni di carico e scarico sarebbero velocizzate. «È evidente – puntualizza – che la pompa che un autista si porta dietro sul camion non può avere la stessa potenza di una professionale installata nell’impianto. Così come è evidente che si finirebbe per tagliare tutto quel tempo che il conducente impiega per creare la linea, per smontarla, per bonificarla e per riporre il tutto all’interno dei mezzi. Tutto questo lungo processo, moltiplicato per il totale dei viaggi affrontati da ogni singolo veicolo, alla fine dell’anno mina l’efficienza del sistema e ne aumenta i costi».
Già, i costi: quanto spende un’azienda di autotrasporto per dotarsi di tutta questa raccorderia e della pompa di scarico? Ciccotelli ci mette un po’ a rispondere. Poi, soltanto davanti all’insistenza, fa una quantificazione a spanne: «Direi che siamo almeno nell’ordine dei 3.000 euro a camion. Ma il problema non è relativo alla spesa, che oggi affrontiamo in automatico, reputandola necessaria per lavorare nell’attuale condizione di mercato. Il problema è che mi piacerebbe se la trasformassimo in un investimento in sicurezza, utilizzando quei soldi per metterci tutti in condizione di lavorare in modo più sereno». Chi se la sente di dargli torto?

Redazione
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La redazione di Uomini e Trasporti

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