Si scrive DAF, ma si legge trattori, segmento cui il costruttore olandese è leader europeo da anni. Da altrettanti, però, si pone la stessa casa l’obiettivo di far breccia anche nei carri, giocando carte e strategie di varia natura. La nomina di Massimo Dodoni come amministratore delegato di DAF in Italia può essere letta anche in questa chiave. Alle sue spalle, infatti, questo manager veronese ha lavorato sia per aziende di componentistica come SAF Holland, sia per produttori di allestimenti come Kögel, arrivando a occupare una poltrona all’interno del board. Una prerogativa che, in quanto italiano, non è così scontata all’interno di un’azienda tedesca.
Ma questa è una visione personale, che mi ripromettevo di condividere con il diretto interessato. E sullo stand DAF a Ecomondo, nel corso della prima settimana di novembre, c’è stata l’opportunità di farlo in prima persona. «In effetti è vero – ha esordito Dodoni – io ho due anime: una riferita all’allestimento e a tutto quanto ha a che fare con la parte che va dalle ruote alle sospensioni e una che invece si riferisce a quanto sta sopra i longheroni del telaio. Si tratta di conoscenze tecniche che ha acquisito con esperienze diverse e che mi hanno insegnato a cogliere non soltanto i punti critici e quelli di forza di un allestimento, ma anche quei miglioramenti che possono rendere più proficua la collaborazione tra chi realizza un camion, chi si occupa delle sospensioni, chi dell’allestimento. Perché in definitiva ogni azienda, a prescindere dalla sua organizzazione, dispone di procedure utili per lavorare al proprio interno e per interfacciarsi con i vari partner e fornitori esterni. Il momento critico emerge quando bisogna far cooperare due aziende partner, una che produce l’allestimento e l’altra che fornisce la base per sostenerlo, perché a tale scopo bisogna far dialogare proficuamente i due uffici tecnici».
«D’altra parte, a vendere un trattore basta un commerciale, per vendere un autocarro con allestimento serve un ingegnere o un esperto di prodotto. Prima ancora di definire il prezzo, cioè, vanno risolte decisive questioni tecniche. menti o di componentistica, erano non soltanto lunghi, ma anche incerti. DAF in quella fase ha avuto un’idea geniale: offrire veicoli già preallestiti con configurazioni per quanto possibile standardizzate, ma accettabili per la maggior parte della clientela. Adesso la situazione è migliorata come consegne, ma i tempi di allestimento sono ancora un po’ lunghi; ed ecco che il Ready to Go è ancora la soluzione migliore per avere un veicolo standardizzato, immediatamente disponibile e dotato di quanto serve per lavorare per quella parte di clientela che ritiene anche due mesi un tempo di attesa troppo lungo. Sicuramente sarà potenziato nel senso che cercheremo sempre più di allargare il range di allestimenti proposti, a seconda delle esigenze di mercato».

Tutto questo insegna che spesso il prodotto è figlio delle esigenze di una stagione. Il veicolo elettrico non è mai stato percepito come tale. Per quale motivo?
Anche su questo terreno ho vissuto un’esperienza diretta. Quando ho lasciato Kögel e prima di arrivare in DAF ho lavorato per sviluppare mercati per conto di aziende estere, ma ho anche avuto il piacere di collaborare con Rampini, un’azienda specializzata nella produzione di autobus completamente elettrici o a idrogeno, da 6-8 metri, destinati a centri cittadini. E lì ho imparato a credere in tali forme di alimentazione, ma ho capito pure che hanno bisogno per stabilizzarsi di 20-25 anni circa. Questo lasso di tempo, però, non serve alla tecnologia, che di fatto è già matura e continua a perfezionarsi in modo accelerato. Le batterie in tal senso sono un esempio eloquente: fino a qualche anno fa gli scettici dell’elettrico ponevano l’accento sul problema del loro smaltimento. Le batterie attuali, invece, sono completamente riciclabili e hanno del tutto rimosso il problema. I 20-25 anni servono invece per sviluppare il mercato e, in particolare, per efficientare i tre momenti su cui poggia: la produzione, la distribuzione e l’utilizzo. I costruttori sono in grado di mettere nella disponibilità dei clienti veicoli già funzionanti, ma per essere utilizzati serve che qualcuno produca l’elettricità in modi compatibili con l’ambiente e che poi la distribuisca. In più c’è il problema finanziario, perché per assecondare la transizione servono comunque infrastrutture e quindi finanziamenti considerevoli. E all’interno dell’Unione europea esistono forti disparità di veduta anche perché non tutti gli Stati dispongono della medesima capacità di investimento. E comunque, anche quando si sarà trovata questa disponibilità, ci vorrà tempo per realizzare tutto quanto serve. E nel frattempo passano gli anni.
Ma non ci sono settori pronti già da oggi all’elettrificazione?
Sicuramente. I servizi comunali e le attività delle municipalizzate, come la raccolta rifiuti, possono essere aggredibili da subito, perché coprono distanze brevi e le autonomie possono essere garantite con un unico punto di ricarica realizzato in ambito aziendale. In più questa clientela ha il vantaggio di ragionare non in termini di profitto ma di servizio. E di fronte a normative che impongono sempre più vincoli ai veicoli inquinanti per accedere nei centri storici o che limitano le emissioni acustiche, le municipalizzate dovrebbero sentirsi naturalmente indirizzate a rispettare tali vincoli facendo ricorso a veicoli elettrici, che peraltro sono già immediatamente disponibili.

In ogni caso per l’utente finale la sostenibilità costa. Chi dovrebbe farsene carico?
Una parte la paga chi, come i costruttori, sviluppa e realizza veicoli sostenibili. Poi però, affinché questi veicoli siano anche acquistati c’è bisogno di un investimento di natura pubblica, proposto sotto forma di incentivi e giustificato dall’obiettivo di migliorare la qualità della nostra aria. Per esempio, in alcuni paesi europei se viaggi sulle autostrade con un veicolo elettrico o non paghi nulla o paghi di meno. Da noi sarebbe opportuno adottare misure analoghe. E non soltanto per ridurre il pedaggio autostradale, ma anche per calmierare il prezzo del kilowatt analogamente a quanto si fa con i rimborsi delle accise rispetto al consumo di gasolio. Ovviamente non immagino incentivi eterni: quando il sostegno avrà stimolato la domanda e le immatricolazioni diventeranno sufficienti ad assorbire la capacità produttiva di una fabbrica, si innescherebbero economie di scala tali da far diminuire in maniera sensibile il costo del singolo veicolo.
Parliamo della rete di vendita e di assistenza: quella di DAF è già sufficientemente dimensionata?
Sono convito che la chiave del successo in questo mondo passi dal potenziamento capillare dei centri di assistenza. Perché in definitiva, qualunque prodotto si venda, l’esigenza dei clienti è sempre la stessa: disporre di uno strumento funzionale al lavoro e che rimanga in officina per manutenzione e riparazione soltanto per un tempo ragionevole. Ed è normale che sia così: un veicolo fermo va comunque pagato anche se non può essere messo al servizio dei committenti e quindi non può fatturare. Detto ciò, non sto criticando la nostra organizzazione, ma credo che una rete di assistenza vada resa più capillare assecondando la crescita dei veicoli DAF in circolazione. La nostra rete, composta da 84 officine autorizzate, è dimensionata per accogliere il parco circolante di ieri; ma se nel frattempo i veicoli DAF in circolazione – sia quelli nazionali sia quelli in transito – sono aumentati, bisogna lavorare per farla crescere.
Quindi, dobbiamo attenderci tagli di nastro nel 2025?
Nel prossimo anno ci saranno almeno quattro nuovi concessionari, che si aggiungeranno ai sedici attuali. In realtà, dietro a queste inaugurazioni ci sono dealer già esistenti che hanno interesse a investire in nuovi ambiti e sono consapevoli che con DAF possono avere un ritorno. È importante essere percepiti come un costruttore che progredisce velocemente e che necessita di partner adeguati per tenere il passo. Ma vogliamo anche essere identificati come un marchio interessato a prendersi cura delle proprie reti di vendita e di assistenza e che, di conseguenza, è anche molto esigente.

Lo sviluppo del mercato dei truck deve fare i conti con il freno costituito dalla mancanza di persone disposte a entrare in questo settore in veste di autisti o di meccanici. Che si può fare per rimuovere questo freno?
Per prima cosa bisognerebbe inquadrare il problema nella giusta dimensione. La mancanza di autisti, infatti, non interessa soltanto le aziende di autotrasporto o i costruttori di truck, ma tocca tanti ambiti, per il semplice motivo che l’86% di quanto viene movimentato in Italia viaggia su gomma. Quindi, se non si trovano persone disponibili a mettersi al volante di camion, tante merci saranno trasportate meno oppure costeranno di più, perché chi le produce o le commercializza dovrà dotarsi di magazzini più grandi in quanto la loro fornitura non è così sicura. Se vogliamo evitare tale deriva, sarebbe importante se, a livello governativo, si attribuisse maggiore importanza a tale professione, incentivandola a livello formativo. Inoltre, come si ripete da anni, bisogna rimuovere quello stereotipo che disegna l’autista di camion come «brutto, sporco e cattivo», per descriverlo invece come un professionista della guida, come un gestore di sistemi computerizzati che si muovono su ruote. Ma soprattutto come una figura formata alla sicurezza stradale. Lo dimostrano i fatti: diversamente da quanto ritengono i più, le statistiche dicono che un camion è coinvolto soltanto nel 6% degli incidenti avvenuti in un anno in Italia. Sono qualità a cui anche la stampa generalista dovrebbe dare risalto.
E per la mancanza di tecnici di officina cosa fate in concreto?
Come DAF stiamo investendo tanto. Abbiamo creato presso il nostro centro di assistenza tecnica una flotta di veicoli da mettere a disposizione degli istituti professionali, convinti che per formare la conoscenza di un camion la cosa più entusiasmante è quella di mostrarlo ai ragazzi e alle ragazze, di farglielo smontare e rimontare completamente. Ma soprattutto stiamo cercando di far crescere delle figure professionali proiettate nel domani, visto che il meccanico sarà sempre di più un esperto di automazione industriale, di robotica, di informatica. E anche rispetto ai veicoli elettrici stiamo formando figure pronte ad assisterli, anche se al momento attuale con il circolante esistente potrebbe apparire inutile. E per lo stesso motivo molti siti dei concessionari sono già pronti ad accogliere questi veicoli con prese, spazi di officina, buche separate.
Fino a qualche anno fa il mercato dei veicoli industriali correva parallelo all’andamento del PIL. Oggi questa corrispondenza è venuta meno: per quale motivo?
Per rispondere bisogna tornare indietro di 30 anni, quando veramente il PIL era legato a doppio filo all’andamento del mercato dei truck e la nostra industria era votata alla meccanica e alla trasformazione di prodotti agricoli. Altro non c’era. Oggi, invece, a pesare sul PIL sono anche tante attività di servizio che non richiedono un trasporto. Quindi, se andassimo a spacchettare il PIL, ci renderemmo conto che il peso espresso dai settori primario o secondario è rimasto essenzialmente quello di 30 anni fa, ma sono cresciute nel frattempo altre attività. Così come in 30 anni è aumentata l’incidenza del trasporto intermodale, che mi auguro possa avere sempre maggior spazio se sostenuto dai necessari investimenti infrastrutturali, anche perché consentirebbe al trasporto su gomma di specializzarsi sull’ultimo miglio e sul medio raggio. I trasporti su lunghe distanze ci saranno comunque, ma saranno meno frequenti e soprattutto affrontati con veicoli più sostenibili.