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Riccardo Morelli, nuovo presidente Anita: «La logistica al centro dell’agenda»

Il settore crescerà «a doppia cifra», ma bisogna «dare una strategia realmente efficace al sistema Paese». È una sfida imperniata soprattutto sulla rivoluzione digitale che richiede «investimenti ingenti». Gli imprenditori «sono pronti a fare la loro parte», ma «dalle istituzioni hanno bisogno di supporto» (e non di «risorse a pioggia») là dove non riescono ad arrivare

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Più che l’«autotrasporto», la «logistica». Ogni volta che la domanda comprende la prima parola, lui, delicatamente, quasi senza farsene accorgere, la sposta sulla seconda. I toni sommessi, mai sopra le righe, la voce tranquilla dove l’accento umbro si coglie appena, i gesti sobri e misurati, lo sguardo attento di chi non vuol perdersi nulla di ciò che lo circonda: è lo stile con cui si presenta Riccardo Morelli, nuovo presidente di Anita, associazione di imprenditori dell’autotrasporto aderente a Confindustria. Titolare della Morelli Logistica e Servizi, importante realtà imprenditoriale umbra molto attenta alla transizione ecologica del settore, Morelli si è insediato a fine giugno al vertice dell’organizzazione in una fase delicata e irta di problemi per l’autotrasporto. E per la logistica. Ma già in questa sua garbata precisazione c’è in nuce la sua visione delle prospettive del settore. «Nei prossimi anni l’autotrasporto sarà sicuramente uno di quei settori che potranno dare maggiore impulso al sistema Paese, in particolare a tutto quel che gira intorno alla manifattura. Basta leggere gli indici: la logistica è destinata a crescere nei prossimi dieci anni con valori a doppia cifra. Ma non possiamo crogiolarci in questa prospettiva. Anzi. Dobbiamo riportare il nostro settore al centro dell’interesse nazionale per cercare di dare al Paese una strategia realmente efficace. Per fare un esempio, tutti diciamo che l’Italia è una piattaforma logistica nel Mediterraneo e che la logistica è un fattore premiante per il sistema Paese, però nella realtà queste proposizioni non si trasformano mai in atti concreti. Quindi è necessario rimettere la logistica ai primi posti dell’agenda del governo».

Una bella sfida…

Nella quale noi imprenditori siamo pronti a fare la nostra parte. Ci troviamo in una fase in cui per una logistica che voglia muoversi a 360 gradi le sfide sono tante. La principale, però, sarà quella digitale. Sarà una sfida epocale per le nostre imprese, perché dovremo affrontare investimenti ingenti e di conseguenza dovremo cercare di mettere a terra anche tutti quegli strumenti che possono supportare le aziende in questa fase di transizione tecnologica.

Una transizione che cambierà il mondo dell’autotrasporto e della logistica. Ma come?

Da qui a 10 anni ci sarà una logistica profondamente mutata, innanzitutto per le dimensioni delle aziende: già da 5-6 anni stiamo assistendo a un fenomeno di crescita delle imprese con aggregazioni, acquisizioni e quant’altro. Questo perché probabilmente noi tutti stiamo cercando di offrire ai nostri clienti un servizio logistico più ampio, che si occupi anche di segmenti collaterali, rimasti finora separati dal core business aziendale. Questo comporta una crescita non solo dimensionale, ma anche tecnologica. È l’innovazione che consente l’ampliamento dell’offerta di servizi. Una volta la guida era l’attività principale di questo settore. Oggi la guida forse è «una delle attività» che l’operatore svolge durante la giornata. Quindi si tratta di un mondo completamente diverso e in continua evoluzione. Noi dobbiamo essere pronti a sfruttare tutte le opportunità che si presenteranno, ma chiaramente dobbiamo essere messi in condizione di poterlo fare. Non chiediamo alle istituzioni risorse a pioggia, ma solo di essere supportati in quello che da soli non riusciamo a fare. Perché noi siamo ben consci che dobbiamo fare la nostra, siamo disposti a metterci del nostro e siamo anche capaci di farlo. Ma un’azione di supporto secondo me è indispensabile.

In tutto questo, però, vi trovate anche in mezzo a una transizione green che pone problemi…

La transizione green, secondo me, deve essere soprattutto sostenibile. È inutile che andiamo a fare voli con la fantasia. La Commissione europea vuole fermare i motori endotermici dal 2035. Ma mancano solo 12 anni, un arco temporale troppo stretto a fronte di investimenti colossali, non soltanto in termini economico-finanziari, anche in termini infrastrutturali, richiesti per questa operazione. Anche perché l’elettrico e l’idrogeno sicuramente avranno il loro spazio nel futuro, ma ad oggi non penso siano utilizzabili in tempi così brevi. Meglio, allora, puntare su un programma che proceda per gradi, iniziando a utilizzare quelle tecnologie mature che, però, possono dare un riscontro anche in termini ambientali immediati: i biocarburanti – per i quali il nostro governo si sta impegnando a livello europeo – i carburanti di sintesi, il biogas, l’HVO… La soluzione è in un mix di tecnologie che, se impiegate in maniera organica, possono dare subito benefici in termini ambientali, salvaguardando anche il motore termico, che io non darei affatto per defunto come dicono in molti. Tanto più che ad oggi i biocarburanti sono perfettamente compatibili con tutti i motori termici di ultima generazione.

Ma la Commissione europea insiste in prospettiva sul full electric, anziché cercare di intervenire sul circolante che nel frattempo invecchia e inquina sempre di più…

Molte di queste scelte sono frutto di ondate emotive del momento e non sempre le ondate emotive hanno fondamenta solide. Se oggi dovessimo far muovere tutto il parco circolante a trazione elettrica, prima di tutto non ci sarebbe l’energia sufficiente, poi – soprattutto noi – avremmo bisogno di una rete adeguata di infrastrutture di ricarica. Quindi se parliamo di un arco temporale di trent’anni, forse qualcosa riusciremmo a fare, ma difficilmente potremmo – anche per motivi economici – moltiplicare le infrastrutture e la produzione di energia elettrica verde così come vorrebbero le proposte europee.

Uno dei temi forti di Anita è sempre stato quello della carenza degli autisti. È appena uscito l’ultimo decreto flussi, che autorizza 452 mila ingressi nel triennio 2023-2025. Ma tra questi non ci saranno conducenti di camion a causa della mancanza della CQC. Questo strumento, dunque, non sembra funzionare. Cosa bisogna fare, allora?

Purtroppo, non è andata come auspicavamo. Il decreto flussi potrebbe essere uno strumento utile, ma andrebbe rimodellato secondo le esigenze del mercato del lavoro. Perché la carenza di capitale umano e di professionalità del settore, al di là della transizione ambientale e tecnologica, resta il problema principale che oggi abbiamo sul tavolo. Noi ci stiamo impegnando per aprire nuove strade, per portare professionalità all’interno delle aziende, ma per farlo dobbiamo ridare attrattività al nostro settore. Confidiamo nella campagna dell’Albo, ma anche noi – come associazione e come aziende – dobbiamo cercare di darci da fare in questo senso.

In che modo? Con corsi di formazione aziendali, per esempio? Funzionano?

Funzionano, qualche risultato lo vediamo, ma molte aziende si stanno organizzando per contribuire a ridurre i costi per conseguire la patente e la CQC, che sono ancora troppo elevati.

Quali sono, per Anita, le altre priorità? Il Brennero? Il contributo ART? Alcune associazioni si sono rifiutate di partecipare al sondaggio dell’Autorità…

Ognuno per il suo ambito, sono tutte priorità. Più che del Brennero, peraltro, parlerei di valichi alpini. Che costituiscono un problema non solo per il nostro settore, ma per il tutto sistema economico nazionale, dal momento che la principale modalità di esportazione verso il Centro Europa è su gomma. Quanto all’ART, la nostra posizione è chiara da sempre: abbiamo già un soggetto che è regolatore, che è l’Albo degli autotrasportatori. Quindi secondo noi è un clone poco utile al settore. Perciò neanche noi risponderemo al sondaggio.

Ultima domanda. Nella sua relazione all’assemblea di Anita lei ha detto che bisogna «consolidare i rapporti» con le altre associazioni. Cosa intende fare?

L’intento è quello di trovare delle intese su problematiche comuni. Dove ci sono possibilità di convergenze è chiaro che riuscire ad avere un fronte comune sarebbe importante, perché ci consentirebbe di fare massa critica. In questo modo ci sarebbe un coro univoco e probabilmente anche i nostri interlocutori ci percepirebbero diversamente.

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