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Una giornata lungo la strada del mare | Fotoreportage

Qualcuno lo chiama trasporto intermodale. Più o meno accompagnato. Ma è una descrizione tecnica riferita ad attrezzature di trasporto. C’è invece un viaggio più interiore, spesso anche più rilassato, vissuto da chi, dopo aver abbandonato la strada d’asfalto e staccato le mani dal volante del camion, una volta tanto non trasporta, ma si lascia trasportare. Un viaggio di tanti momenti, raccontato tramite immagini e suggestioni attraverso gli scatti di Alfonso Santolero

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Camion in affido

Il senso del cambio modale è tutto qui: l’uomo che guida lascia in consegna ciò che guida. Scende, cioè, dal veicolo su ruote e si spoglia di quel camion grande da mettere in stive mai abbastanza grandi. Quindi, lo affida a chi sa come moltiplicare gli spazi, come stipare, come mettere sotto catene ciò che naturalmente sarebbe portato a muoversi. Proprio in quel momento l’uomo che guida è investito da un’inaspettata, gradevole sensazione: si sente libero perché non ha più nulla da condurre. Condizione ideale per affidarsi al mare.

Luci di posizione

Quando si entra in autostrada è obbligatorio accendere le luci. Quando si sale su una nave non serve, anzi diventa necessario socchiudere gli occhi. Perché la luce è sempre lì, riflesso condizionato del mare. È la prima invadente compagna che ti accoglie. L’unica da cui non si pretende un distanziamento. L’uomo che guida se la fa scorrere addosso spiazzato: improvvisamente fermo, attende il suo turno per trovare una posizione da cui far scivolare il tempo. C’è chi cerca di stabilire connessioni, chi guarda i tavoli sistemati su una linea parallela a quella dell’orizzonte. In ogni caso, in qualunque luogo si scelga, prima o poi monterà, simile a una marea, un vago senso di rilassamento. Come una voce che dice: «Stai tranquillo, la strada è lontana!»

Fronte mare

L’uomo che guida ha un destino segnato: la sua professione ha una strada davanti. E le sue giornate, di conseguenza, scorrono fissando di continuo quella striscia grigia che si srotola chilometro dopo chilometro. Sempre necessariamente innanzi. Forse è questo il motivo per cui quando l’uomo che guida imbocca la strada del mare, pretende di averlo – il mare – comunque in fronte agli occhi. Che lo miri per accomodare lo sguardo all’infinito, che lo usi come carezza per assopirsi, che lo scelga come una parete su cui appendere i sogni, il mare resta in ogni caso davanti. E così connota in modo fascinoso le cose: come sarebbe un pasto consumato in un self-service, con il vassoio di plastica e il bicchiere di carta? Qui, incorniciato nel blu, acquista un sapore diverso. Simile a quello che emana una terrazza di uno stabilimento estivo circondata dal sole.

Sguardi a pelo d’acqua

La strada di mare ha regole sconosciute alla strada d’asfalto. Due, in particolare, provocano suggestioni con cui non si finisce mai per fare l’abitudine. La prima è un gioco ottico: quando si guarda il mare, tutto ciò che si trova tra l’occhio e l’acqua diventa una sagoma scura. Sì, un controluce obbligato, in grado di allungare ombre e pensieri. La seconda è un gioco cromatico: quando il tempo scorre sul mare infonde dominanze di colore diverse a ogni giro di orologio. E l’ultima, quella che saluta il giorno, è sempre indiscutibilmente la più affascinante.

Carichi di orgoglio

L’uomo che guida muove un camion per spostare merci. E quando viaggia su strade d’asfalto deve pensare non soltanto a ritmare il proprio tempo e il proprio operato con quanto imposto dalle norme, ma anche a garantire che il carico alle sue spalle rimanga integro in ogni caso. In nave questi pensieri svaniscono e l’idea del prodotto trasportato non sprigiona più un moto di responsabilità, ma di serena fierezza. È il vanto tradito dagli occhi dell’uomo che guida mentre mostra immagini di cassette di melanzane: «Guarda, non sono fantastiche?». In realtà la notte, in mare, rende tutto fantastico, anche una fila di semirimorchi illuminati dall’alto da un bagliore biancastro. Anche quell’inedito senso di orgoglio disseminato nell’aria. Ecco perché, prima che svanisca, l’uomo che guida lo accompagna in cabina. L’ennesimo punto di vista del mare con cui si chiude la giornata.

Giochi di memoria

Uno dei fascini della nave è di essere un luogo ibrido, in cui nel tempo di una traversata bisogna far scivolare le ore come acqua corrente. L’oggetto del passatempo prende il sopravvento, presente – paradossalmente – anche quando le persone scompaiono. Ma soprattutto il proprio tempo si intreccia con quelli di altri esseri in viaggio, animati da tutt’altre motivazioni. Una barca, per esempio, diventa per bambine e bambini un gioco senza fine. Forse anche per questo gli uomini che guidano fissano i loro movimenti e li eleggono a proprio passatempo. Spesso incantato, di tanto in tanto nostalgico, perché spinge il pensiero lontano, verso una «buonanotte» in meno. Poi, dopo aver dato uno sguardo all’orologio, l’uomo che guida si alza, si allontana e asseconda quel desiderio improvviso di fare un’intima telefonata.

Ciao, ciao mare

Il tempo della strada del mare ha una dimensione relativa, dilatata, rarefatta. Quando ci entri dentro non è sempre immediato riprendere i ritmi della strada d’asfalto. Ecco perché l’arrivo in porto segna l’ora in cui il senso di calma statica rimasto a galla sull’acqua va archiviato. Un processo necessario, seppure per qualcuno non sempre piacevole. E mentre è lì che attende l’attracco, l’uomo che guida conquista gli ultimi attimi di pace appoggiando la testa su una colonna. Ma sono attimi, appunto. Poi, come in uno spettacolo, anche la missione di trasporto deve continuare. Così, l’uomo che guida scende nelle viscere della barca, riprende il camion lasciato in custodia e si rimette alla guida. Ciao, ciao mare!

Il servizio fotografico è di Alfonso Santolero.

Daniele Di Ubaldo
Daniele Di Ubaldo
Direttore responsabile di Uomini e Trasporti

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