
Il musicista australiano, abbandonata la parte più rock della sua cifra stilistica, raccoglie e fa proprie le istanze sonore degli anni ’70 e ’80 e le accoppia con l’electro-pop stile Daft Punk dei ’90. Le lunghe code strumentali e il falsetto della voce si innestano nel trip hop e nella disco music. Ne scaturisce una miscela che si adatta perfettamente al tema dell’album, ovvero l’incessante scorrere del tempo. Parker fa tutto da solo: compone, monta e smonta, produce. Nella sua “corsa lenta” – è questa la traduzione del titolo – il suo suono diventa più fluido, malinconico e rarefatto, perdendo la parte tribale ed elettronica. Ma visto il notevole risultato non è assolutamente un male.