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Dalla cabina del camion a YouTube per raccontare la sua passione: Monica, la “Iron Duck” dell’autotrasporto

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La voce è squillante e trasmette tanta allegria che sembra quella di una ragazzina perché, come dice lei, «La passione aiuta a vivere meglio, e fare di una passione il proprio lavoro aiuta a tenersi giovane». E la passione di Monica, nota al mondo di YouTube come “Ironduckmoni64”, si percepisce forte e chiara. Quando parla di camion la voce diventa ancor più brillante e si capisce che, in fondo, è ancora quella ragazzina felice che ha realizzato il suo sogno. Non sappiamo se il destino esista davvero, ma quel che è certo è che in questa storia ha messo il suo zampino perché l’anagramma di Monica è camion, e Monica, il camion, ce l’ha nel sangue.

«È bastato un attimo. Il camion è entrato prepotentemente nella mia testa e ha occupato completamente lo spazio vuoto riservato al sogno della mia vita» scrive Monica in “Soprattutto camioniste”, il libro edito dal gruppo “Buona Strada” Lady Truck Driver Team di cui fa parte e che ha contribuito a fondare. Un colpo di fulmine che ha dato inizio a una lunga storia d’amore per l’autotrasporto che resiste ancora oggi e che nasce proprio da una storia d’amore, per un uomo. A 18 anni Monica si fidanza con un camionista e un giorno succede qualcosa che cambierà radicalmente la sua vita. Monica scrive: «Andai con lui a caricare il camion. Arrivati nel cortile della ditta lui è sceso, ma nella fretta non aveva tirato il freno a mano. Sentii il camion muoversi, puntava dritto verso il capannone di fonte. Non sapevo cosa fare, non sapevo quale fosse il manettino, non sapevo dove mettere le mani. Sono saltata al posto di guida e ho schiacciato il pedale del freno. E non l’ho più mollato fino a quando il mio ragazzo non è risalito in cabina. Da quel giorno del 1984 ogni volta che potevo andavo con lui». 

Monica, è stato quello il momento in cui hai capito che l’autotrasporto sarebbe stata la tua strada?

Devo ammettere che da piccola ho sempre sognato di fare qualcosa di diverso, che non fosse un ripetitivo lavoro d’ufficio o di fabbrica, ma non immaginavo certo di guidare un camion. Giocavo con le macchinine e ricordo che guardavo affascinata quei bestioni della strada, ma senza capire fino in fondo perché mi interessassero così tanto. La passione forse era già lì, nascosta dentro di me, ma io ancora non lo sapevo. Poi a 18 anni, dopo quell’episodio, iniziai a viaggiare con il mio ragazzo, viaggi anche molto lunghi verso Napoli e Bari in un camion con cabina corta. Nel 1986 presi la patente e l’anno successivo iniziai a lavorare per la ditta della sua famiglia, nonostante l’opinione contraria di molte persone, soprattutto dei camionari. Li chiamo ancora così io, come si diceva una volta nel gergo del baracchino. Mi parlavano solo dei lati negativi di questo mestiere cercando di scoraggiarmi, ma io avevo scelto la mia strada, avevo scommesso che ce l’avrei fatta.

Monica al volante nel 1987.

Nel libro scrivi: «Ho sposato il mio moroso e il camion. Ero innamorata di entrambi. Del camion lo sono ancora, lui adesso è il mio migliore amico».

È andata esattamente così. Il nostro matrimonio è finito anche se oggi siamo in ottimi rapporti, oltre che colleghi. L’amore per il camion, invece, è rimasto. Come si dice nel mitico film il Bestione, in fondo, «Il camion non è solo una macchina, il camion c’ha un’anima!». La mia è una passione a 360 gradi, quando non sono alla guida dipingo quadri di camion che ho avuto anche l’occasione di vendere per beneficienza e colleziono mascherine di vecchi mezzi che tengo esposte in casa, al posto dei quadri. Per me il camion ha un’anima

Cosa è cambiato da allora nella professione?

Il modo di fare trasporto è cambiato radicalmente negli anni. Per esempio, una volta si dormiva qualche ora quando si era stanchi e si viaggiava quando si era riposati. Dopo l’applicazione della Legge sulle ore di guida e di riposo per assurdo a volte si sta fermi di più, ma ci si riposa di meno e spesso ci si ritrova a fare la sosta in luoghi senza servizi. Ci sono sempre vantaggi e svantaggi, che vanno valutati caso per caso. Se si viaggia da soli almeno oggi esistono dei limiti, ma si viaggia sempre con la fretta, un occhio alla strada e uno al tachigrafo per controllare le ore di guida. Non c’è più tempo per la solidarietà o per parlare al baracchino che non esiste quasi più. Di conseguenza sono cambiati molto anche i rapporti umani. Una volta con il baracchino c’era più dialogo, si conosceva gente e si stringevano amicizie. Anche il gergo del baracchino aiutava a creare un legame, ma ormai si è perso. A volte mi ritrovo a pensare di essere un po’ nostalgica, il mondo deve andare avanti lo so, però il progresso troppo spesso aggiunge tecnologia e toglie umanità.

Da cosa deriva il tuo soprannome “Iron Duck”?

Ognuno cercava un nome originale per il CB e io avevo un braccialetto che mi aveva regalato mio papà, di cuoio con delle perline e sul bottone di chiusura era stampata la scritta “Anatra metallica”. Mi è sempre piaciuto, oltre a essere un ricordo prezioso, così lo scelsi come nominativo. Ricordo però un aneddoto simpatico. Anni fa mi trovavo con il camion all’altezza di Bologna e al baracchino vengo contattata da un uomo che mi chiede piuttosto brusco dove e perché avessi preso quel nome e quel logo. Avevo infatti stampato anche degli adesivi con lo stesso disegno del braccialetto e li avevo messi sul camion. Gli spiegai la storia del mio soprannome e mi disse che era il padre del produttore dei braccialetti, che aveva fondato il brand “Anatra metallica” appunto. Non sembrava molto felice della mia scelta, però persi il contatto radio e io continuai a chiamarmi così! È una storia buffa, ma la mia cara amica e collega Betty mi diceva sempre che con il nostro lavoro succede sempre qualcosa che alla gente normale non capita. Ed è così, c’è sempre una storia da raccontare se stai alla guida di un camion.

Ironduckmoni64 – a dreamer on the road”, il tuo canale YouTube, oggi è seguito da quasi 7mila persone. Come è nata l’idea di fare dei video?

È in iniziato tutto con “ChiodoVideo”, che è forse il capostipite dei camionisti YouTuber italiani. Guardavo i suoi video e mi piacevano molto, così nel 2009, su suo suggerimento, mi sono lanciata anche io. Iniziai con dei video fotografici, tra cui “Dreamer on the road”, perché in fondo è quello che sono, una sognatrice a cui piace trasmettere emozioni e la propria passione.

Come scegli i temi di cui parlare nei tuoi video?

La scelta è del tutto casuale, quando faccio un viaggio parlo di quello che capita. Per le musiche, invece, cerco sempre di scegliere qualcosa che mi trasmetta e trasmetta anche agli altri delle emozioni. Il mio papà ha sempre sognato che ci fosse un modo per abbinare le immagini alle emozioni e oggi YouTube consente di farlo, per cui se scelgo così attentamente le musiche è perché lo faccio anche in suo onore.

Tra i tuoi tanti video, qual è il tuo preferito?

Si chiama “Tutto scorre”, un video di 9 anni fa. Con quel video ho cercato di far passare un messaggio per me molto importante: non puoi amare una cosa se non conosci il suo contrario. Per esempio, se non hai mai viaggiato non puoi dire che ti piace, così come non puoi dire che è brutto. Chi non ha mai fatto questo mestiere non può giudicarlo negativamente. Certo, le giornate difficili ci sono, i problemi ci sono, ma io sono felice di quello che faccio e cerco di trasmettere questa felicità.

Come descriveresti la tua vita e il tuo lavoro?

È sicuramente una vita molto particolare e che deve piacere, se sei donna forse ancora di più. Ci vuole spirito di adattamento ma non mi è mai mancato. Non mi è mai servito restare a casa molto tempo, io volevo stare sul mio camion. Oggi non faccio più viaggi lunghi, resto prevalentemente nella mia zona, in Lombardia, e solo ogni tanto faccio qualche viaggio fuori regione, ma va bene così, ho fatto le mie esperienze. Quello che conta di più per me oggi è trovarmi bene dove sto ed è così, nell’azienda in cui lavoro siamo tutte persone, non numeri. Nel tempo libero poi sono una persona abbastanza solitaria, mi piace girare in bicicletta per i boschi o dipingere, sempre cose di camion, ovviamente.

Alcuni dei tuoi quadri sono stati anche venduti per beneficienza…

Sì, in occasione di qualche raduno. Perché è questo l’obiettivo dei raduni, non mettersi in mostra, ma cercare di creare dei legami e fare anche qualcosa di utile. Lo spirito non è la competizione, ma la collaborazione. È quello che facciamo anche con il gruppo “Buona Strada – Lady Truck Driver Team” di cui faccio parte. Abbiamo sempre realizzato album, calendari e da ultimo il nostro libro per raccogliere fondi da donare. Il nostro stesso nome è un inno. “Buona strada” deriva dal francese “bonne route”, un’espressione molto utilizzata all’estero e che abbiamo deciso di “importare”. È un augurio che vale non solo quando si è alla guida di un camion, ma in generale nella vita, quello di seguire sempre una “buona strada”.

Ti aspetti che in futuro ci saranno più donne alla guida di un camion?

I numeri dicono che le donne al volante di un camion stanno aumentando ma io sono un po’ sorpresa. In giro non mi capita spesso di vedere volti nuovi e anche quando sono per strada sbircio nelle cabine e vedo poche donne. Forse è vero che sempre più donne prendono le patenti superiori, ma forse non per guidare un camion. Ancora oggi ci sono tante difficoltà e porte sbattute in faccia. Ho delle amiche che hanno dovuto rinunciare a realizzare il loro sogno in quanto donne, non è giusto. Poi ci sono gli stereotipi che vanno superati, anche per avvicinare i giovani, non solo le donne. Dovremmo forse prendere spunto dall’estero e fare in modo che si arrivi all’età per guidare già con un po’ di esperienza pregressa, per esempio grazie ad un tirocinio.

Un’ultima curiosità: qual è il tuo ricordo più bello legato al tuo lavoro?

Anni fa feci un’intervista insieme ad altre autiste per una rivista. Il pezzo era “7 donne su 7 camion” e ognuna descriveva il suo mezzo, tutti di diverse case costruttrici. Dopo la pubblicazione un giorno mi suonò il telefono. Era la Renault Trucks. Inizialmente pensai addirittura che si trattasse di uno scherzo. Invece avevano apprezzato la mia intervista e mi invitarono nella loro sede in Francia a visitare lo stabilimento. Per un’appassionata come me è stato un altro sogno che si è realizzato.

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