In pensione tre anni prima? Sì, se il tuo lavoro è tra quelli indicati come «usuranti» e cioè per il cui svolgimento è richiesto «un impegno psicofisico particolarmente intenso e continuativo, condizionato da fattori che non possono essere prevenuti con misure idonee», come recita un decreto legislativo del 1993.

Chi rientra in questa categoria, avendo svolto l’attività «usurante» per almeno sette degli ultimi dieci anni, può chiedere il prepensionamento con «quota» 97,6 (minimo 61 anni e 7 mesi di età e 35 anni di contributi ) se lavoratore autonomo e 98,6 (minimo 62 e 7 mesi e 35 anni) se lavoratore dipendente.
Peccato che i conducenti di veicoli per il trasporto merci – autisti o padroncini – non ne possano beneficiare, perché il loro non è considerato lavoro usurante. Un’esclusione che ha sapore di beffa, perché il lavoro dei «cugini» al volante di un bus, invece, è considerato usurante, facendoli accedere al prepensionamento.
Una lunga storia
Per capire la causa di questa discriminazione, bisogna ripercorrere la storia delle leggi che riguardano questo tema. Di lavoro usurante come elemento per benefici pensionistici si parla da più di trent’anni. Fu la riforma del primo governo presieduto da Giuliano Amato, nel 1992, a ridurre il periodo contributivo e, dunque, ad anticipare di fatto la pensione, per i lavoratori dell’amianto. L’anno dopo, lo stesso governo emanò il primo decreto legislativo che regolava la materia dei lavori usuranti, anticipando fino a un massimo di 24 mesi il pensionamento di lavoratori sottoposti a particolari stress, ma dovettero passare altri sei anni perché fosse emanata la circolare interministeriale attuativa, che il 9 maggio 1999 aggiungeva come lavori usuranti a quelli dell’amianto anche quelli nelle cave, in galleria o in miniera, nei cassoni ad aria compressa, quelli svolti da palombari, quelli ad alte temperature, in spazi ristretti. Norma equa, ma inapplicabile perché la copertura era affidata a un’aliquota contributiva aggiuntiva da inserire nei contratti di lavoro e dunque scaricandone il costo sui datori di lavoro e sui lavoratori.
Un nuovo tentativo di risolvere la questione fu avanzato, nel 2007, dal secondo governo di Romano Prodi, con la legge delega le cui disposizione decaddero perché le commissioni parlamentari non riuscirono a dare il parere di competenza a causa della fine della legislatura e il tentativo di riprenderla in quella successiva può altri tre anni, finché nel 2011, fissate le coperture con un Fondo annuale, un nuovo decreto legislativo – il 67° di quell’anno – poté essere varato. In quella delega era previsto un anticipo del pensionamento fino a tre anni, aggiungendo alle categorie già elencate anche i lavoratori notturni, quelli addetti alla catena di montaggio. E gli autisti di bus con almeno nove passeggeri compreso il conducente.

Proteste e richieste
È una lunga storia, imperniata su due termini difficili da conciliare: da una parte la pressione per allargare la platea dei beneficiari, dall’altra le difficoltà di finanza pubblica non in grado di soddisfare tutte le richieste. E dunque, il tentativo di riportare anche i conducenti di camion nei lavori usuranti comincia da allora, culminato nel 2015 quando Unatras e i sindacati confederali inviarono una lettera all’allora ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Giuliano Poletti, del governo Renzi, per sostenere che «non c’è ingiustizia più grande che trattare situazioni uguali in modo diverso».
Ma chi si è impegnato nel modo più vistoso per ottenere l’ampliamento dell’elenco agli autotrasportatori è stato, in quegli anni, Tonino Mollica, presidente del Drivers Club Italia e dirigente di Trasportounito, pensionato con 1.200 euro dopo 43 anni di contributi e 11 milioni di chilometri alla guida di un tir. Ha scritto o ha parlato a quasi tutti i ministri dei Trasporti, da Poletti all’attuale Matteo Salvini; ha raccolto 15 mila firme, ha inviato una petizione al Parlamento europeo, è riuscito a far presentare un disegno di legge da quattro senatori di Lega e Cinque stelle. «Ma vi sembra normale», chiede, «che un camionista deve stare su un tir fino a 67 anni? Secondo noi guidare fino a quella età è una follia perché diventiamo un pericolo per la sicurezza stradale». E rivendica di aver ottenuto per i suoi colleghi, se non la qualifica di lavoro «usurante», almeno quella di lavoro «gravoso», che permette l’accesso all’APE sociale.

Ma almeno c’è l’Ape (o il notturno)
In effetti, dal 2017 è stato introdotto sperimentalmente l’Anticipo pensionistico (prorogato anche per il 2025, ancora in via sperimentale), che tra le categorie beneficiarie indica anche i «conduttori di mezzi operanti e camion». Si tratta di un anticipo concesso a chi ha compiuto 63 anni, con almeno 36 anni di contributi, che abbia svolto attività (classificata tra quelle particolarmente difficoltose e rischiose) per almeno sei degli ultimi sette anni. Una «quota» 99, più alta e più tardiva di quella dei lavori usuranti, il cui importo – pari alla rata mensile della pensione spettante – non può superare i 1.500 euro per 12 mensilità l’anno e fino al compimento dell’età prevista per la pensione. Una possibilità per l’applicazione delle norme sul lavoro usurante, tuttavia, esiste, ma riguarda una condizione estremamente particolare.
L’elenco dei lavori usuranti comprende anche quelli che operano di notte «a turni o per l’intero anno». Il che vuol dire che un conducente o un padroncino che per almeno sette degli ultimi dieci anni abbia lavorato tutte le notti per quattro ore tra la mezzanotte e le sette del mattino, potrebbe accedere al beneficio. È uno spiraglio molto sottile, ma il pieno inserimento del conducente di camion tra i lavori usuranti è davvero difficile. Oggi non deve fare i conti soltanto con le finanze pubbliche, ma anche con la penuria di autisti. Con i camion fermi sui piazzali, le imprese sono restie a lasciar andare i conducenti che hanno sotto contratto. E le associazioni non si scaldano più, su questo tema, come dieci anni fa.
