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Trasportatore investito da carrello, carrellista e datore di lavoro ritenuti responsabili

La Cassazione Penale, Sez. 4, in un caso che riguardava un investimento di un camionista da parte di un carrello elevatore nell'area di carico/scarico, ha condannato non solo il carrellista, ma anche il datore di lavoro. Infatti, in caso di inadempienza da parte del datore degli obblighi contrattuali di assicurare condizioni di piena sicurezza sul lavoro, la responsabilità è sua ed è lui che deve provare la non imputabilità dell'infortunio a propria colpa

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Oggi ci occupiamo di sicurezza e in particolare degli obblighi che sono a carico del datore di lavoro. Il caso in esame riguarda specificamente un incidente nell’area di carico/scarico merce provocato da un carrello elevatore, che aveva investito il trasportatore del carico nella zona di manovra. Vedremo come gli organi giudicanti, dal primo grado alla Cassazione Penale (sentenza Sez. 4, 8 giugno 2022, n. 22164), abbiano deciso per la responsabilità non solo di chi era alla guida, com’è evidente, ma anche del datore di lavoro che non aveva assicurato le condizioni di sicurezza necessarie a evitare l’infortunio.

IL FATTO

Prima il Tribunale di Treviso (sentenza 10/10/2019) e poi la Corte di Appello di Venezia (sentenza 11/3/2021) avevano stabilito che i due imputati, il primo alla guida del forklift e il secondo titolare della ditta, erano responsabili del ferimento di un trasportatore autonomo di materiale metallico che aveva riportato lesioni giudicate guaribili in 90 giorni. Per questo erano stati condannati, con le circostanze attenuanti generiche, a 6 mesi di reclusione ciascuno e al pagamento delle spese processuali. Oltre alle colpe generiche (imprudenza, negligenza e imperizia), la sentenza accusava il datore di lavoro di aver omesso, nel documento di valutazione, di analizzare i rischi per la sicurezza degli addetti durante le operazioni di carico/scarico del materiale con carrelli elevatori, trascurando di adottare le misure tecniche e procedurali necessarie per l’eliminazione del rischio di investimento. L’autista del carrello rispondeva invece di lesioni personali gravi perché, mentre era intento a guidare il mezzo, non prestava attenzione alla presenza di operatori a piedi, investendoda dietro il trasportatore che stava predisponendo il proprio automezzo per lo scarico del materiale.
I due condannati sono poi ricorsi alla Cassazione, contestando l’affermazione dei due Tribunali secondo cui, se le prescrizioni di sicurezza imposte dalla SPISAL (Servizio per la prevenzione e la sicurezza negli ambienti di lavoro) successivamente all’incidente fossero state adottate prima di esso, l‘evento non si sarebbe verificato. L’obiezione difensiva è che queste prescrizioni, assolutamente generiche, prevedono esclusivamente che il carrello elevatore non possa operare prima che l’operatore a terra abbia terminato le proprie mansioni. Pertanto, poiché il trasportatore ferito era entrato nella zona di manovra solo dopo che il carrello elevatore aveva cominciato a operare, senza autorizzazione del manovratore e senza avvisarlo, l’addebito di responsabilità a carico del titolare della ditta risulterebbe illogico e contraddittorio. Secondo la difesa, insomma, la responsabilità del datore per avere omesso di valutare i rischi per la sicurezza degli addetti alle operazioni di scarico del materiale con i carrelli elevatori è fondata sul presupposto errato che il camionista si trovasse nella zona di manovra prima che il carrello iniziasse a operare. Il comportamento del danneggiato, secondo questa tesi, avrebbe dovuto essere considerato abnorme perché del tutto esorbitante e imprevedibile, con una condotta che per la sua stranezza e imprevedibilità era al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte del responsabile della sicurezza.
Per il conducente del carrello, secondo l’avvocato difensore, non esiste poi alcuna anomalia di comportamento, poiché la condotta dell’addetto al trasporto era stata appunto imponderabile. Il camionista era entrato nella zona di manovra dopo che erano iniziate le operazioni di scarico e, quando l’autista del carrello aveva rivolto le spalle al camion, aveva deciso di infilarsi nel piccolo spazio tra i due veicoli per chiudere la sponda del camion che ancora stava sollevando, rimanendo così schiacciato tra i due mezzi.
La richiesta degli imputati è dunque quella di annullamento della sentenza.

LA DECISIONE

Il Collegio penale non si è però fatto convincere da questi argomenti, oltretutto già presentati in appello e da quei giudici «puntualmente esaminati e disattesi con motivazione del tutto coerente e adeguata». È infatti inammissibile il ricorso per Cassazione fondato sugli stessi motivi proposti con l’appello e motivatamente respinti in secondo grado, sia per l’insindacabilità delle valutazioni di merito adeguatamente e logicamente motivate, sia per la genericità delle doglianze. La Cassazione quindi abbraccia la motivazione della sentenza impugnata e respinge la tesi del comportamento abnorme del lavoratore infortunato.
«Da entrambe le sentenze di merito – spiega difatti la suprema Corte – si desume che la condotta della persona offesa ha certamente contribuito a determinare il fatto, ma il sistema della sicurezza all’epoca esistente in azienda presentava tutta una serie di criticità, rilevate nella relazione Spisal, che lo rendeva inadeguato al fine di tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa».
Queste criticità si erano evidenziate innanzitutto nella dinamica dell’infortunio, con lo schiacciamento della persona offesa contro la sponda del camion, da costui condotto e fermo nella zona dedicata allo scarico merci all’interno dell’impresa, da parte del muletto che lo aveva urtato con la parte posteriore, in piena violazione delle norme di sicurezza e delle prescrizioni di legge. Poi nell’assenza di idonee indicazioni nell’area di carico/scarico su dove non potessero transitare né fermarsi i pedoni, indicazioni che solo dopo l’evento considerato vennero poste ed evidenziate con opportuna segnaletica. Terzo errore: la mancata osservanza/rispetto delle regole/prescrizioni e di una loro attenta osservanza e sorveglianza da parte del responsabile della ditta. Il trasportatore non si trovava infatti nell’apposita cabina di attesa predisposta in zona diversa, ma nei pressi del camion. Infine, la mancanza della minima attenzione da parte del conducente il forklift nell’eseguire la manovra, senza alcun riguardo alla possibile presenza di persone appiedate.

È dunque legittima – dice la Cassazione – la conclusione del giudice di Treviso secondo cui «… se le pur previste e indicate modalità di sicurezza fossero state osservate … l’infortunio sarebbe stato evitato.» Da una parte infatti «non erano presenti misure di prevenzione e protezione che garantissero l’incolumità dei lavoratori a terra con presenza di carrelli elevatori in movimento nell’area magazzino» e dall’altra «le norme generali di comportamento affisse all’ingresso del magazzino ricevimento merci non prevedevano l’allontanamento del personale a terra durante la movimentazione del carrello elevatore né una procedura specifica da attuare per le operazioni di carico/ scarico con intervento dell’autotrasportatore a terra per spostamento telone e apertura/chiusura sponde». Durante la movimentazione del materiale – dice la legge – il carrello elevatore deve operare solo quando il lavoratore a piedi ha terminato le proprie mansioni e si trova in una zona sicura. Nell’area magazzino, insomma, non vi era segnaletica orizzontale e verticale di sicurezza in quanto il rischio non era stato valutato. Tant’è vero che, dopo l’incidente, le misure adottate nell’azienda prevedono che l’autista che accede all’area di carico/scarico deve rimanere sempre sul proprio veicolo o, in alternativa, presso la zona sicura indicata, e che può scendere dal mezzo o avvicinarsi per il solo tempo necessario alla verifica del carico e operazioni correlate, solo nelle aree inerenti le operazioni di carico/scarico e nel momento in cui il muletto è a debita distanza (oltre 4 metri).
Il comportamento del camionista non era pertanto imprevisto e imprevedibile e il datore di lavoro – e in generale il destinatario dell’obbligo di adottare le misure di prevenzione – è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente sia abnorme, ovvero un comportamento imprudente che sia stato posto in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli. Ma anche un’azione che rientri nelle mansioni che gli sono proprie, ma «che sia consistita in qualcosa di radicalmente… lontano da quelle ipotizzabili e quindi prevedibili». La giurisprudenza parla in questi casi di “rischio eccentrico”.

In conclusione, ribadisce la Corte, «è da ritenersi pacifico che non vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro il comportamento negligente del lavoratore infortunato che abbia dato occasione all’evento quando questo sia da ricondurre comunque all’insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio derivante dal richiamato comportamento imprudente».

LE CONSEGUENZE

Due le conseguenze del ragionamento della Corte.
La prima: non è configurabile la responsabilità ovvero la corresponsabilità del lavoratore per l’infortunio occorsogli quando «il sistema della sicurezza approntato dal datore di lavoro presenti delle evidenti criticità, atteso che le disposizioni antinfortunistiche perseguono il fine di tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa». Datore di lavoro che è garante dell’incolumità fisica dei prestatori di lavoro.
La seconda: per quanto concerne il carrellista, «egli non ha prestato la dovuta attenzione alla presenza a terra del ferito e non vi è stata con lo stesso comunicazione verbale delle operazioni previste per il carico e lo scarico delle merci e lo spostamento dei materiali. Dove alla data dell’incidente fossero state adottate tutte quelle misure di prevenzione degli infortuni indicate dallo Spisal dopo l’incidente, e che effettivamente vennero poi adottate, e il carrellista avesse operato secondo quanto la sua mansione gli imponeva, l’incidente non si sarebbe verificato».
«I motivi dedotti dai ricorrenti – conclude la Cassazione – non paiono idonei a scalfire l’impianto della sentenza impugnata, in cui la Corte d’Appello ha affrontato con argomentazione esaustive e logicamente plausibili le questioni proposte».
La sentenza finale ha perciò dichiarato inammissibili i ricorsi e condannato i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di 3000 euro ciascuno in favore della cassa delle ammende.

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