Veicoli - logistica - professione

HomeProfessioneAutista con forti dolori alla schiena chiede invalidità, il tibunale gliela nega

Autista con forti dolori alla schiena chiede invalidità, il tibunale gliela nega

Un autista di camion impegnato nella distribuzione di carburante accusa nel tempo forti dolori alla schiena. Gli viene diagnosticata una patologia non presente nelle tabelle Inail, ma in altre utili a monitorare l'andamento delle malattie professionali. E siccome l'Inail non gli riconosce un'invalidità si rivolge a un tribunale. Che però non accetta il suo ricorso. Ecco perché

-

Un autista di camion soffre di forti dolori alla schiena, per essere precisi di una lomboartrosi discopatia osteofitosica, che si ha quando i dischi della colonna vertebrale non sono più in grado di assorbire gli urti in modo adeguato. Siccome il suo stato è sempre più critico chiede al tribunale di Savona di riconoscerlo quale malattia professionale, malgrado non sia iscritta nelle apposite tabelle Inail. La risposta del tribunale, fornita con sentenza n.82/2021 del 4 maggio 2021 RG n. 227/2020 è stata fortemente negativa.
Con quale motivazione? Secondo i giudici del Lavoro, «la patologia sofferta dall’autotrasportatore è rimasta di incerta determinazione professionale e non è stata stabilita la correlazione tra attività lavorativa espletata di conducente di mezzi pesanti e la malattia riscontrata».

Per cercare di capire meglio il tutto, proviamo a partire dall’origine della vicenda. Il lavoratore protagonista di questa vicenda aveva svolto mansioni di conducente di mezzi pesanti in un primo momento come titolare di impresa individuale – quindi, come padroncino – poi, come lavoratore dipendente di altre ditte. Nei primi anni di lavoro si occupava del trasporto di materiali refrattari, in un secondo momento si è occupato di trasportare carburante in autobotti. Ed è proprio in questi anni che l’attività, non limitandosi solo nel trasporto ma anche nel «dover scendere dall’autobotte, aprire il tombino in metallo del peso di circa 70/80 chilogrammi, posizionarvi la pompa e successivamente richiudere la copertura del pozzetto», che ha iniziato ad accusare i primi dolori. A detta dell’autista questo tipo di attività avrebbe fatto insorgere appunto la lomboartrosi discopatia osteofitosica. Una patologia che, a suo dire, lo avrebbe costretto a sottoporsi a un intervento chirurgico che avrebbe ridotto la sua capacità lavorativa del 18%.

Proprio per questo decide di rivolgersi all’Inail per chiedere il riconoscimento dell’inabilità permanente parziale quale malattia professionale, ma l’istituto gli respinge la domanda perché «l’esposizione al rischio non sarebbe stata idonea a provocare l’invalidità».

A quel punto l’autista decide di ricorrere al tribunale per impugnare la decisione dell’Inail e vedersi così riconosciuto il diritto all’assicurazione per infortuni sul lavoro garantito dall’art. 74 del Testo Unico.

Durante la fase istruttoria, il tribunale nomina un consulente tecnico d’ufficio per effettuare tutti gli accertamenti e da questi si accerta la sua condizione di autotrasportatore (svolta per ben 33 anni, dal 1982 al 2015) e l’insorgenza, negli ultimi due anni di lavoro, di un’artrosi lombare. Ma siccome tale patologia non rientra nelle tabelle delle malattie professionali di cui all’allegato 4, ex art. 3 d.PR 1 124/1965, come aggiornate con DM 9 aprile 2008, ma è soltanto nella Lista II del Decreto del ministero del Lavoro e delle politiche sociali del 12 settembre 2014. La differenza è notevole: se infatti una malattia rientra nelle tabelle si presume – diciamo così – che la sua origine sia professionale e quindi spetta al datore di lavoro fornire la prova contraria in tal senso; le malattie presenti nell’elenco sono quelle denunciate dai medici per far emergere l’origine professionale delle patologie non comprese nelle tabelle per farle così tenere sotto osservazione, a fini di rilievo e statistici, in vista della periodica revisione delle malattie professionali.

Quindi la presenza della patologia dell’autotrasportatore, pur rientrando nell’elenco previsto per le patologie da tenere monitorate, di per sé non è stara ritenuta sufficiente a dimostrare la «connessione causale tra la patologia sofferta dal lavoratore e l’attività lavorativa esercitata».

Per poter ottenere quanto richiesto, in pratica, l’autista avrebbe dovuto provare l’origine della malattia e la sua correlazione con il lavoro svolto. Cosa che invece né lui né il consulente nominato dal tribunale sono riusciti a dimostrare, anche perché il conducente di veicoli presentava già ulteriori fattori di rischio che possono essere riferiti a una fascia più larga di popolazione, vale a dire un’età superiore ai 60 anni, una condizione di obesità e il vizio del fumo.

Redazione
Redazione
La redazione di Uomini e Trasporti

close-link