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GASOLIO | Tutte le cause dei forti aumenti del prezzo dei carburanti. La lunga corsa verso i 2 euro

Non è solo la guerra a far crescere il gasolio, in aumento già dallo scorso autunno per la domanda di petrolio nel post pandemia. Ci sono anche cause strutturali e monetarie. Ma non è finita: gli esperti temono ancora aumenti e le associazioni internazionali chiedono interventi sull’accisa

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Lunedì 7 marzo, la Staffetta Quotidiana, pubblicazione che monitora il mercato di petrolio e carburanti, ha dato la notizia choc: il prezzo del gasolio da autotrazione aveva superato i due euro al litro (per la precisione 2,015 per il servito), gettando nello sconforto soprattutto il mondo dell’autotrasporto, visto che lo stesso carburante solo lo scorso dicembre 2021 era a 1,589 al litro. Un balzo, più che un aumento, del 26,8% in tre mesi (ma del 33% nelle ultime tre settimane) che nei giorni successivi è andato oltre portando il gasolio a superare il prezzo della benzina con picchi di 2,61 euro al litro per il primo, contro i 2,52 della seconda.

Tutta colpa della guerra?

La causa più evidente di questa improvvisa fiammata sembra lo scoppio della guerra in Ucraina, il che è vero solo in parte. Certamente la Russia è il terzo produttore mondiale di petrolio (dietro Arabia Saudita e Stati Uniti), esporta 7 milioni di barili al giorno, di cui 4,5 finiscono nei paesi Ocse che si trovano in Europa, costituendo il 26% del petrolio importato dall’Unione. Ma il fatto che sul breve periodo non sia possibile rinunciare al petrolio russo (anche per l’Italia che riceve da Mosca solo il 13% del suo fabbisogno), non incide più di tanto sul suo prezzo, condizionato invece dall’incertezza del quadro internazionale generato dalla guerra e dal timore di un’interruzione delle forniture dalla Russia all’Europa (che nessuno né prevede, né auspica).
Il fatto è che alla base degli aumenti c’è proprio il mercato e questo si è mosso già lo scorso autunno, prima dell’invasione dell’Ucraina, quando il prezzo del petrolio risalì (o meglio non discese) perché a ottobre l’Opec Plus – l’organizzazione storica di 14 paesi produttori prevalentemente arabi allargata ad altri 10, tra i quali la Russia, per riunire così il 71% della produzione mondiale – decise di non aumentare la produzione, come chiedevano gli Stati Uniti per calmierare il prezzo, lasciandola a 400 mila barili al mese. Dopo pochi giorni, il barile aveva già superato gli 83 dollari per raggiungere i 100 a febbraio 2022. Poi, nel picco massimo siamo arrivati a 140 dollari al barile, ma è difficile dire se la Russia avesse messo nel conto le conseguenze sul sistema economico occidentale nel programmare l’invasione dell’Ucraina. Il sospetto è nell’aria.

Le altre cause

Se il mercato era in rialzo prima della decisione dell’Opec Plus, il motivo va cercato soprattutto nella ripresa economica della produzione globale (ma anche dei consumi privati) in uscita dalla pandemia, in grado di far esplodere la domanda di energia soprattutto nel trasporto merci, dove il carburante usato è in genere il gasolio, che l’Europa importa raffinato per il 58% del fabbisogno da Mosca). In più, tutto ciò accade in un periodo nel quale il cambio tra dollaro (con cui si prezza il barile di petrolio) ed euro (la moneta con cui lo compriamo) ci è sfavorevole, visto che un euro equivale a circa 1,09-1,10 dollari. Per fare un esempio, quando il barile costava 144 dollari, ma l’euro era forte, il costo per noi era di 97 euro, oggi ce ne vogliono 130.
Altro elemento che incide sul prezzo dei combustibili è il graduale abbandono in Europa degli investimenti nel settore petrolifero (raffinerie, piattaforme petrolifere) perché l’Unione europea con il suo programma di transizione ecologica Fit for 55 ha sterzato decisamente verso l’energia green (elettrica o a idrogeno) scoraggiando così l’iniziativa privata a investire sui carburanti fossili. In una situazione di emergenza come quella attuale, tuttavia, avere un sistema di produzione e raffinazione e soprattutto scorte accantonate può calmierare i prezzi. Gli stati europei in realtà hanno riserve strategiche da cui attingere. L’Italia lo ha fatto ai primi di marzo, rilasciando 2,041 milioni di barili, pari a 68,7 mila barili al giorno, per 30 giorni, ma affinché l’operazione abbia un effetto tangibile sul prezzo del petrolio occorre un’azione di livello europeo.

Il pessimismo degli esperti

Come andrà a finire? In questa situazione – in cui il fattore più incidente sui costi è l’incertezza – gli esperti non sono ottimisti. Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, si limita su Il Foglio a mettere in guardia da un eventuale embargo del petrolio russo, pur definendolo «un’ipotesi ancora un po’ lontana, perché fa troppo male a noi», in quanto «porterebbe il prezzo a 200 dollari al barile e quindi alla pompa il prezzo andrebbe a 2,5 euro al litro. Un livello distruttivo per l’attività di molti settori industriali. E questo è solo un auspicio perché ulteriori aumenti non sono da escludere».
Più nera la vede Alberto Clò, direttore della rivista Energia, secondo cui il prezzo del barile di petrolio potrebbe superare il record storico di 147,5 dollari registrato nel 2008 sul listino Brent. «Nel medio termine potremmo vedere il vero impatto del crollo degli investimenti», ha affermato, «e se i prezzi saliranno a 150-200 dollari al barile la nostra benzina potrebbe toccare i 4 euro al litro».
Per questo il governo – i governi – non può non intervenire. L’UETR (ma anche l’IRU ha avanzato proposte simili) ha lanciato l’allarme chiedendo agli Stati europei di «introdurre un’opportuna riduzione della tassazione sul gasolio e ingenti rimborsi di accise ai vettori». Inoltre, sarebbe estremamente importante e utile un’azione di emergenza dell’Ue per consentire agli Stati membri di applicare aliquote di accise inferiori per il trasporto di merci, anche al di sotto della soglia minima fissata a livello dell’Ue».

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