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Morì lavorando in nero come autista: dopo 9 anni l’azienda di autotrasporto obbligata a risarcire i familiari

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«Non ho i soldi per pagare, a meno di non mettere in liquidazione l’azienda e licenziare 30 operai». Ma per la Cassazione, questa semplice affermazione, non avvalorata da prove, è da respingere. La controversia si riferisce a un drammatico incidente sul lavoro, avvenuto quasi 9 anni fa, 26 giugno 2006, alla Saint Gobain di Porta a Mare (Pisa). Carlo Pratelli, 62 anni, pensionato di Pontedera, era stato travolto e ucciso da sei tonnellate di lastre di vetro, lasciando moglie e due figli, mentre lavorava in nero per la ditta di autotrasporti Mancini Attilio Srl. Uno dei quattro condannati Franco Mancini, 80 anni, di Cascina, titolare all’epoca dei fatti dell’azienda, aveva chiesto la sospensione dell’esecutività della sentenza con la quale era stato obbligato in solido a risarcire i parenti della vittima. Nel frattempo erano già passati 5 anni e 4 mesi. La sentenza d’appello aveva confermato la sanzione anche penale e contro di essa (17 giugno 2013) tutti e quattro i condannati – in primo e secondo grado – per omicidio colposo in concorso avevano fatto ricorso in Cassazione.

Secondo il titolare della Attilio Mancini Srl «la provvisionale determinata appare incongrua e, in ogni caso, la sua esecuzione sarebbe praticamente solo a carico del Mancini, poiché gli altri risultano impossidenti, non avendo neppure pagato la provvisionale disposta in primo grado». Per Mancini «il pagamento ha provocato un grave danno a me stesso e alla mia azienda, poiché è certo che si può far fronte alla richiesta di pagamento di 150.000 euro solo ponendo in liquidazione l’impresa che dà lavoro a 30 dipendenti». Il titolare insomma non poteva, a suo dire, pagare, a meno di chiudere la ditta e licenziare i suoi dipendenti.

Ma agitare lo spettro della chiusura di un’azienda con 30 licenziamenti per non pagare il risarcimento ai familiari della vittima di un incidente sul lavoro non ha convinto i giudici della Cassazione: «Mancini – afferma la Corte – ha meramente dedotto che il versamento della somma, determinata dalla Corte d’appello a titolo di provvisionale in complessivi 300.000 euro, ma fatta oggetto di richiesta nei limiti di 150.000 euro, determinerebbe la messa in liquidazione della Mancini trasporti con conseguenze che si ripercuoterebbero sull’occupazione, ma non ha provato in alcun modo la sussistenza dei presupposti per la sospensione, avendo omesso di produrre financo il bilancio della società e la sua propria dichiarazione dei redditi».

La Cassazione non si è insomma fidata della parola dell’imprenditore, visto che a suo dire «non ha dimostrato quale danno grave e irreparabile subirebbe la ditta dal saldo del conto imposto dalla sentenza» e lo ha condannato a risarcire moglie e figli del pensionato morto.

Una vicenda che comunque giunge alla sua conclusione dopo tempi biblici, evidenziando ancora una volta le difficoltà di una giustizia troppo lenta per essere considerata tale.

Redazione
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La redazione di Uomini e Trasporti

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