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Il furto di identità di un’impresa di autotrasporto. Attenti all’azienda clonata

I truffatori si presentano con un telefono e un indirizzo (falsi), inviano i documenti di un trasportatore vero, mandano un complice a ritirare la merce e spariscono con il bottino. Centinaia i casi negli ultimi anni, spesso con l’aiuto di Internet. Ma le tecnologie sono utili anche nelle contromisure, anche se la principale è fare molta attenzione con gli sconosciuti

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Non li ferma neanche la pandemia. Nel 2020 i ladri di tir hanno fatto sparire il carico di 2.435 camion: per chi ama le statistiche alla Trilussa più di 200 al mese, quasi sette al giorno, uno ogni tre ore e mezza. L’anno prima, senza Covid, i camion rubati erano stati «solo» 1.429: un aumento del 70% concentrato ovviamente su prodotti alimentari e farmaceutici, ma senza disdegnare abbigliamento (specialmente quello di lusso) ed elettronica di consumo. Con una percentuale di recupero intorno al 40%, ma solo per quanto riguarda i veicoli: delle merci non si ritrova neanche l’ombra, se si escludono le (rare) irruzioni delle forze dell’ordine in un magazzino di qualche organizzazione criminale. A leggere le statistiche diffuse ogni anno da Viasat – che elabora i dati del ministero dell’Interno – c’è davvero di che preoccuparsi. E di che organizzarsi in tempo con contromisure efficaci, perché la Transported Asset Protection Association (TAPA) che monitorizza a livello mondiale furti e rapine nella logistica e nel trasporto merci ha già messo in guardia per la fase successiva all’emergenza, quando la criminalità organizzata intensificherà le propria attività per recuperare gli introiti persi nei mesi precedenti. Ma difendersi non è facile, soprattutto nei confronti della tecnica più insidiosa di tutte: il furto d’identità.

L’AZIENDA CLONATA

Noto da tempo e praticato da bande di malviventi specializzate, il furto d’identità – per come lo raccontano gli esperti – sembra facile come rubare le caramelle a un bambino, ma in realtà ha alle spalle un’organizzazione efficiente e una preparazione curata nei minimi dettagli. La banda criminale prima di tutto sceglie la merce da rubare (va per la maggiore, di questi tempi, l’abbigliamento griffato: pezzi di valore facili da piazzare rapidamente sul mercato); poi contatta un’azienda di autotrasporto specializzata in quel tipo di merce – che chiameremo «Trasporto Merci» – fingendo di essere un caricatore in cerca di un servizio di consegna. Attirando il trasportatore con la promessa di un lavoro, i criminali si fanno mandare tutta la documentazione di prammatica: iscrizione all’Albo, licenza di trasporto, DURC, visura camerale, polizza di assicurazione e quant’altro.

A questo punto, i truffatori creano un indirizzo mail con un provider di grande diffusione, riportando il nome dell’impresa clonata – per esempio, trasportomerci@gmail.com – acquistano una scheda telefonica usa e getta (si chiamano «burner phone» e spesso hanno un prefisso anomalo) e si offrono al caricatore preso di mira per trasportare la sua merce a un prezzo molto più basso di quello di mercato. L’interpellato, naturalmente, chiede la solita documentazione e i malviventi gli inviano per posta elettronica quella dell’impresa autentica. Il committente controlla l’autenticità dei documenti, vede che sono autentici e non ha problemi ad affidare il trasporto ai malviventi, i quali mandano un loro autista alla guida di un veicolo sul quale sono montate le targhe (falsificate) del vettore clonato e caricano la merce che non verrà mai consegnata al destinatario, ma sparirà insieme al telefonino usa e getta e all’indirizzo mail.

ANCHE GLI STRUMENTI DI ZUCCHERO

Con questo metodo truffaldino negli ultimi anni sono stati messi a segno centinaia di furti.  La maggiore risonanza è stata, qualche anno fa,  per quello degli strumenti musicali della band di Zucchero, ritrovati in un magazzino nel Bresciano, che ha portato all’arresto di una banda di nove persone che operava tra la Sicilia e la Lombardia e aveva messo a segno in pochi mesi 16 colpi, rubando merce per un valore di 16 mila euro. Assai più vasta l’organizzazione criminale, con base nell’agro nocerino, sgominata nel 2016 da polizia e carabinieri. Le 29 persone arrestate e le 38 denunciate, impiegando 39 automezzi pesanti e semirimorchi, avevano messo a segno 111 colpi per un valore complessivo di dieci milioni. L’inchiesta era stata denominata «Big boat», riprendendo una conversazione telefonica fra gli indagati, nel corso della quale uno dei truffatori si vantava che «la nostra è una grande barca, impossibile affondarla».

Altri 50 episodi truffaldini erano stati scoperti qualche anno prima nell’ambito di un’altra inchiesta denominata «Totò truffa» (e proprio da questa indagine si è arrivati a «Big boat»). E «Ghost truck» è stato invece il nome assegnato a un’operazione della polizia che nel 2015 ha bloccato una banda di sedicenti autotrasportatori i quali, con il sistema descritto (e facendo anch’essa base tra Napoli e Salerno), per oltre tre anni ha rubato merce di ogni tipo: alimentari, detersivi, elettrodomestici e addirittura bobine di teli di plastica per 230 mila euro. Otto arresti per una banda che è riuscita truffare almeno 46 società italiane e una decina di straniere in Francia, Repubblica Ceca, Polonia, Romania, Svizzera, Austria e Germania.

E le truffe continuano anche in questi giorni, benché un quadro preciso si riesce ad avere solo a indagini concluse e che queste ultime non siano aiutate dalla ritrosia dei truffati a denunciare il raggiro per non fare la figura dell’ingenuo. Né aiuta il fatto che, mandati a processo, i criminali scelgano per lo più il rito abbreviato (con pena scontata) e vengono condannati a pene che – magari anche con qualche riduzione per buona condotta – dopo pochi anni li fanno tornare in libertà. Nell’aprile del 2017 sono state emesse le prime quattro sentenze per altrettanti imputati di «Big boat», con condanne da due anni e due mesi a quattro anni e quattro mesi. Ma a fine 2018 sono tornati in manette a Verona due pregiudicati coinvolti in quel processo, per esserci ricaduti, questa volta appoggiandosi a una borsa merci elettronica.

LE BORSE CARICHI

Perché le tecnologie offrono nuove opportunità ai criminali e costringono tutti ad alzare la soglia d’attenzione. Ma altre tecnologie offrono anche l’opportunità di aumentare la sicurezza. Le borse carichi, benché formalmente non possano intervenire direttamente nel rapporto fra i caricatori e i trasportatori a cui offrono la possibilità di entrare in contatto, si preoccupano di fornire ai propri clienti un ambiente sicuro. Teleroute, borsa merci del gruppo Alpega, operativa in tutta Europa con oltre 200 mila offerte giornaliere di trasporto e 70 mila professionisti del settore «verificati», ha il sistema Quality Assurance Policy (QAP) che garantisce una rigorosa procedura per l’ammissione di nuovi associati e il successivo monitoraggio della loro attività sulla piattaforma. «Per garantire accordi sicuri», aggiunge Verónica Rodríguez, Head of Brand Alpega Group, «Teleroute consente ai trasportatori di effettuare tutti i controlli necessari prima di accettare un carico tramite la Community Manager, in cui è possibile consultare i profili delle aziende. Inoltre, se è necessario approfondire, il servizio clienti fornisce informazioni sul percorso e il comportamento all’interno della borsa carichi di quelle aziende con cui si desidera lavorare».

E Tommaso Magistrali, Country Manager Italia di Timocom, altro gigante europeo delle piattaforme con 800 mila offerte internazionali di carichi e mezzi e 45 mila operatori «verificati», ricorda che «da sempre, prima di ammettere un’impresa – sia della committenza che del trasporto – conduciamo accurate verifiche, facendo riscontri documentali sia sull’azienda che sui suoi amministratori ed eseguendo i più approfonditi controlli incrociati, proprio per evitare questo tipo di eventi fraudolenti». E aggiunge che «il nostro servizio clienti monitora costantemente l’utilizzo del sistema, andando a individuare eventuali comportamenti anomali, supportato a livello tecnologico da un algoritmo».

CI VUOLE ATTENZIONE

Le tecnologie, dunque, sono certamente in grado di ridurre i rischi di questo tipo di raggiro. Gli autotrasportatori più anziani ricordano che una volta (in realtà non c’è mai nulla di nuovo) ai truffatori bastava rubare il timbro di un’impresa per creare documenti falsi. Oppure trovavano le loro vittime tra i fax raccolti in una sorta di bacheca alla buona, che negli anni Novanta era stata allestita alla meno peggio in un angolo di un autogrill nei pressi di Verona.
E gli stessi protagonisti di «Big boat» hanno dovuto cambiare metodo. Fino a pochi anni fa creavano delle aziende ad hoc, intestate a prestanome compiacenti, e dunque in grado di produrre la dovuta documentazione per il tempo strettamente necessario a mettere a segno il colpo. È chiaro che, con queste credenziali fasulle, sulle borse carichi più serie non riescono neanche a entrarci.
Ma neppure le tecnologie e le contromisure introdotte dalle piattaforme bastano a garantire il caricatore, se non ci mette anche lui la massima attenzione. In un caso recentissimo, un’impresa di autotrasporto (che, come spesso in questi casi, preferisce l’anonimato) aveva pubblicato la sua offerta di subappalto su una borsa carichi ed è stata contattata telefonicamente da un truffatore che ha fatto riferimento all’inserzione – ma senza seguire la procedura interna della piattaforma – e si è aggiudicato il viaggio a un prezzo stracciato, fornendo la documentazione di un’azienda realmente esistente. Peccato che la merce – una volta caricata su un camion le cui targhe sono poi risultate false – sia sparita, che la documentazione fosse stata ottenuta con l’inganno, che l’indirizzo della sede fosse fasullo e che al numero di telefono dai cui era partita la chiamata non risponda più nessuno. Ma per sapere dell’inserzione, qualcuno – il dipendente di un’azienda regolare? un complice infiltrato in qualche modo? – doveva essere entrato nella piattaforma. Le indagini sono tuttora in corso.
La realtà è che gli Uffici traffico delle imprese spesso sono oberati da un lavoro che si muove nel segno della rapidità. Trovare un vettore o un subvettore spesso è una decisione da prendere al volo. «Occorrerebbe formare il personale», ammette un trasportatore rimasto «scottato», «in modo che non solo sia capace di riconoscere le falsificazioni più grossolane, ma anche di insospettirsi di fronte a qualche indicazione dubbia e lì far scattare i controlli più accurati». La fretta, inoltre, spesso fa anche «dimenticare» di controllare il tracking e, addirittura, di verificare l’effettiva consegna della merce nei tempi previsti. È rimasto famoso il caso di un truffatore che è riuscito a ripetere il colpo per quattro volte, prima che – dopo una settimana – committente, impresa di trasporto e destinatario si accorgessero che la merce non era arrivata.

IL PROBLEMA DEL RISARCIMENTO

Una maggiore attenzione, per di più, richiesta anche dal fatto che, oltre al danno, per il trasportatore c’è anche il rischio della beffa. Le compagnie di assicurazione offrono polizze contro il furto o la rapina della merce, ma quasi mai prevedono la copertura dei danni subiti per una truffa e solo in qualche caso per l’appropriazione indebita. Nelle aule dei tribunali non sono infrequenti le battaglie legali per verificare se il raggiro ha preceduto l’appropriazione o viceversa e per stabilire a chi tocchi risarcire il danno.

Una discussione che spesso ha aspetti paradossali, come il caso di un furto di capi d’abbigliamento griffati per un milione di euro, sottratti grazie a una soffiata di un autista in difficoltà economiche che, alla fine, si è sgravato la coscienza e ha confessato. Nonostante ci fosse il reo confesso – privo, peraltro, di risorse economiche – la causa civile è proseguita per individuare chi dovesse accollarsi il risarcimento del danno tra i soggetti della filiera. Ed era un semplice furto. Figuriamoci con una truffa ben organizzata…

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