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EDITORIALE | Come collettivizzare i nodi dell’autotrasporto

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L’aria è inquinata? Colpa dell’autotrasporto. Sulle strade ci sono troppi incidenti? Sempre colpa dell’autotrasporto. E se le aree di sosta sono infrequentabili o se i treni non sono mai diventati una modalità di trasporto competitiva, le responsabilità sono ancora del settore che muove merci su gomma. Dietro a queste colpe c’è il doppio volto con cui è visto l’autotrasportatore: quello del lobbista poco avvezzo a mollare privilegi (al pari di tassisti o balneari) e quello di una razza arrogante e volgare, che concede il meglio di sé quando si mette a tavola. Perché lì – complice pure l’immagine costruita da Chef Rubio – mangia e beve come se la vita non andasse oltre la tovaglia, dimenticandosi quindi che quando si rimetterà al volante finirà per attentare alla vita degli sfortunati con cui si troverà a condividere la strada.

Tutte fesserie, certo. Però, il fatto che all’esterno esista una tale considerazione morale per questa professione, di certo non innesca una corsa per volervi accedere.

In ogni caso serve non piangere, ma studiare contromisure. Quali, me le suggerisce la Società italiana di medicina ambientale (Sima), autrice di uno studio, pubblicato a fine maggio, da cui emerge che ogni anno tutti i veicoli adibiti al trasporto merci producono 190 tonnellate di PM2.5 e 232 di PM10, il 7% del totale delle emissioni inquinanti. Percentuale tutto sommato modesta, se non fosse che da sola determina a ogni cambio di calendario la perdita di 12.000 anni di vita e una spesa conseguente per la sanità italiana che va dagli 860 milioni al miliardo di euro.

Dopo aver letto questa notizia l’autotrasportatore prova un certo sobbollimento nella regione gastrico-duodenale. Proviamo a tenerle a bada per tentare di ragionare. Da un certo punto di vista lo studio della Sima indica un modo intelligente di collettivizzare un problema. Esattamente ciò che l’autotrasporto non sa fare. Mi spiego.

Prendiamo il dato che vuole l’età media del parco circolante del settore fissata a 14 anni. Lo si ripete da anni in ogni convegno, ma non interessa nessuno. Ma se invece sottolineassimo che ogni anno in Italia la nostra sanità spende un miliardo in più perché l’autotrasporto inquina, forse qualcuno si porrà il problema di rinnovare quei veicoli vetusti e sarà indotto a farlo non per il bene dell’autotrasporto, ma per quello della collettività.

Una volta colte tali opportunità, potremmo tentare di applicarle altrove. Tutto sta nell’interpretare le problematiche dell’autotrasporto non dal suo punto di vista, ma da quello dell’opinione pubblica. Faccio un altro esempio. In Italia mancano 18mila conducenti di camion e dopodomani potrebbero per ragioni anagrafiche raddoppiare. Il problema è tangibile, ma interessa poco. Se però si cominciasse a far mente locale su quante merci – dai farmaci agli alimenti fino ai carburanti – rimarrebbero ferme quando non ci saranno più mani disposte a girare il volante di un camion, molti alzerebbero la testa.

Altro esempio: ogni giorno un camion attende in media 4,35 ore per caricare e scaricare merci, facendo perdere alle imprese che hanno investito in quei camion l’opportunità di fatturare tre miliardi in più. Detta così suona come un lamento corporativo. Ma se calcolassimo quanto potrebbero costare meno al consumatore finale quei prodotti costretti ad attendere e quanto potrebbe rimanere di più ogni anno nelle sue tasche, secondo voi quell’attesa attirerebbe di più l’opinione pubblica? Io ritengo di sì e sicuramente susciterebbe interesse anche nel committente se cogliesse quanto quell’attesa è il fattore che spesso lo mette fuori mercato, perché i suoi concorrenti, attivi in altri contesti territoriali in cui il carico è fluido, sopportano un peso logistico inferiore. Messo di fronte a tale evidenza, cioè, anche lui ingaggerebbe una lotta contro le lungaggini.

D’altra parte, lo Stato su questo versante si è dimostrato blando. L’ex sottosegretario Bartolomeo Giachino, intervenuto (dalla platea) alla presentazione della terza edizione dei «100 Numeri per capire l’autotrasporto», pretendeva di spacciare l’indennizzo di 40 euro l’ora come la soluzione al problema. In realtà è evidente che un sistema costretto all’inattività per 4,35 ore al giorno mina l’efficienza e la competitività dell’intera economia del paese. È per risarcire questo danno non bastano certo 40 euro. Lo sanno bene Spagna e Portogallo che sanzionano pesantemente chi provoca le attese in quanto sacrifica l’interesse collettivo alla rapida circolazione delle merci. E chissà se anche da noi un caricatore, davanti alla prospettiva di dover pagare 15 mila euro di multa, guarderebbe a quei quattro giri e mezzo di orologio con diversa apprensione.

Daniele Di Ubaldo
Daniele Di Ubaldo
Direttore responsabile di Uomini e Trasporti

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