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L’altra metà del camion

Poche, anzi, pochissime, ma determinate. Le donne che imbracciano il volante di un camion sono in Italia (e anche in Europa) solo il 2% del totale degli autisti. Un numero esiguo che la pandemia ha ulteriormente limato anche, o forse soprattutto, a causa della mancanza dei «servizi necessari»

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Sono 13 mila le donne al volante di un mezzo pesante in Italia, il 2% del totale degli autisti. Poche ancora, ma decisamente buone, verrebbe da pensare ascoltando le loro voci e le loro storie, di vita e professionali.
Spesso figlie d’arte, conoscono la professione fin da quando sono bambine e sono determinate a portare avanti una tradizione di famiglia ormai consolidata, dimostrando di essere all’altezza del compito, nonostante tutte le difficoltà, nonostante tutti i pregiudizi.

Dayana Baruzzo

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«Noi donne nel settore siamo ancora pochissime e spesso siamo guardate ancora con una certa sorpresa e con un po’ di diffidenza», racconta Dayana Baruzzo, 34 anni di cui 14 passati al volante dopo aver deciso di portare avanti la professione del padre.
«Le donne che fanno questo lavoro sono abituate ad avere a che fare con gli uomini; ora gli uomini si dovranno abituare ad avere a che fare con le donne».

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Numeri alla mano, la percentuale di donne in possesso della CQC per il trasporto professionale di merci o passeggeri è infatti in aumento: 18.412 unità in termini assoluti al febbraio 2021 e di fronte agli stravolgimenti portati lo scorso anno dalla pandemia nel mercato del lavoro e con la disperata carenza di autisti lamentata da tutte le imprese, in Italia e all’estero, sarebbe stato tutto sommato normale se sempre più donne – le più danneggiate dalla crisi legata al Covid-19 – avessero deciso di rimettersi in gioco ripartendo proprio da un settore, quello dell’autotrasporto e più in generale della logistica, che con la pandemia è stato inevitabilmente posto sotto i riflettori.
Così almeno è stato, per esempio, per Elisa Crivellari, 30 anni e una carriera nel commercio come direttrice di uno store di abbigliamento.
Durante il lockdown, rimasta senza lavoro, la decisione: lasciare tutto per seguire le orme del nonno e del padre prendendo le patenti professionali; o per Marta Bertazzo, che dopo quindici anni trascorsi a lavorare come grafica pubblicitaria ha deciso di ritrovare se stessa proprio in cabina. Anche Manuela Brunner, trentunenne di Kurtasch, in provincia di Bolzano, dopo anni trascorsi dietro la scrivania di un’azienda di trasporti, ha deciso che era la parte operativa quella che la rappresentava di più, ha preso le patenti e ha iniziato a fare l’autista per la stessa impresa per la quale lavorava come segretaria.

Se la presenza femminile nel settore dei trasporti tornerà a crescere dopo il leggero caro subìto nel 2020, però, anche i servizi dedicati agli autisti hanno inevitabilmente bisogno di essere ripensati e adeguati alle esigenze di questa forza lavoro. «Le scuderie più intelligenti», spiega Bertazzo, «iniziano a sentire l’esigenza di un’apertura alle autiste donne, ma non devono farlo solo per una facile pubblicità: per esempio, nei magazzini raramente c’è un bagno riservato alle autiste. Se le imprese vogliono una maggiore presenza femminile nel settore, allora bisogna anche che siano coerenti, riconoscendo il valore della differenza e prevedendo i servizi necessari per ciascuno. Non pretendiamo una sala da tè, ma un servizio essenziale».

«La situazione in Italia è disastrosa», aggiunge Diana Danila, alla guida da tre anni su tratte prevalentemente europee. «Mancano servizi igienici e docce dedicate alle donne e, anche là dove si trovano, o sono sporchi o sono chiusi con la chiave, costringendoci a perdere tempo per poterla richiedere». Dettaglio non irrilevante considerando i ritmi frenetici degli autisti e i tempi concitati con cui sono costretti a fare i conti.
C’è poi un altro aspetto non irrilevante che rischia di costituire un forte deterrente alla crescita dell’occupazione femminile nel comparto: la necessità di mano d’opera specializzata che frena l’accesso di nuove forze lavoro. Come le donne e i giovani, appunto. «Le aziende spesso ricercano personale già con esperienza, ma potrebbero investire sulla formazione di nuove leve», precisa Simona Maresca, trentottenne ligure, ma operativa in Trentino-Alto Adige, dove da quattro anni è alla guida di un autotreno per il trasporto bestiame.
«Bisognerebbe fare qualcosa a riguardo», continua, «per incentivare le nuove generazioni e sponsorizzare maggiormente la professione». Già, perché i muri da abbattere sono ancora tanti. «Sono cambiate tante cose», ricorda Debora Facchetti, veterana dell’autotrasporto, una delle prime donne ad essersi messa alla guida di un mezzo pesante, oltre 30 anni fa. «Oggi ci sono molte più donne autiste, proprio perché con gli anni, con il lavoro e con l’impegno abbiamo saputo dimostrare che siamo perfettamente qualificate per fare questo mestiere.
C’è molto rispetto tra i colleghi, ognuno di noi fa cose diverse e in modo diverso e se lo facciamo bene o male non dipende certo dal nostro genere. Ma quando si decide di intraprendere questa strada, bisogna essere consapevoli che non è facile e che ci sono diverse barriere da superare. Ma l’essere donna non deve essere una di queste: io e le mie colleghe ne siamo la dimostrazione».

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tratto da «100 numeri per capire l’autotrasporto. Storie in movimento», edizione 2022
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