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EDITORIALE | I giovani sono fannulloni? E mo’ basta!

C’è una generazione di mezzo, figlia di quella uscita dalla guerra, che ha elevato il lavoro a sacrificio. Ma sapeva di andare incontro a un destino di progresso, in cui pensione e altri pezzi di Stato sociale erano quanto si otteneva in cambio di quel sacrificio. Oggi – ripete spesso questa generazione – «i giovani non hanno voglia di concedere il proprio tempo privato alle invasioni del lavoro». E forse è veramente così. Ma, d’altra parte, a questi giovani cosa si prospetta in cambio? Di certo non una pensione, non un pianeta pulito, non una retribuzione adeguata ai loro studi

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Questo editoriale è scritto da un boomer. Anzi, più che un editoriale è un appello indirizzato ai miei coetanei: smettiamola con la retorica dei giovani fannulloni, dei giovani sdraiati, dei giovani interessati più allo spritz che alle trasferte o allo straordinario. Che sia vero o meno non mi interessa. Reputo invece necessario circostanziare le situazioni, in modo da favorire – tema di questo numero monografico – il passaggio e il dialogo generazionale.

Partiamo allora da noi, figli di una generazione uscita dalla guerra e votata esclusivamente al lavoro e impossibilitata a individuare un concetto di tempo libero, perché ogni minuto era funzionale a ricostruire, a rimettere in moto un paese lacerato. Il fatto che i figli di quella generazione si chiamino «baby boomer» è il sintomo che i nostri padri hanno vinto, che hanno ottenuto un’agognata esplosione economica. Ma insieme al benessere, unitamente al potere liberatorio del fare, ci hanno trasmesso la logica vincente del sacrificio. Anche per noi cioè il lavoro è stato prioritario, ma era il prezzo di un patto sociale con cui una parte concedeva il proprio tempo senza vincoli, per ottenere in cambio due certezze decisive: quella che le sorti del proprio quotidiano sarebbero state comunque progressive rispetto a quelle della generazione precedente, che cioè i figli avrebbero beneficiato di maggiori agi rispetto ai propri genitori; quella che, alla stagione della concessione del tempo lavorativo, sarebbe seguita quella del riposo, garantito con assegni pensionistici adeguati e a partire da un’età ragionevole.

Esattamente ciò che manca ai giovani di oggi, venuti su con una litania costante che ha ripetuto come un mantra che la pensione è un concetto da dimenticare. Per varie ragioni, ma una è da rimarcare: siamo stati costretti a smantellare pezzi di welfare anche perché abbiamo un debito pubblico di circa 2.800 miliardi di euro. A conti fatti, è come se ogni cittadino italiano si ritrovasse sulle spalle 47 mila euro di debiti da pagare. Tutti, compresi quelli nati prima che quel debito esplodesse.

Ma «la pensione, questa sconosciuta» non è l’unica hit che ha risuonato nelle orecchie di questi giovani dalla loro adolescenza in avanti. L’altra serviva a ricordare che «c’è tanta crisi» e che quindi bisognava rimboccarsi le maniche. Ed era un motivetto molto vario e ritmico perché una volta c’erano i mutui subprime, un’altra i debiti sovrani, un’altra ancora la pandemia e ora una guerra. Anzi, due.

Un meccanismo analogo ha funzionato anche con l’ambiente, ma qui evito di entrare nel dettaglio. Siamo tutti consapevoli che il pianeta in cui i giovani si trovano a vivere è molto più inquinato di come noi l’avevamo trovato. E siamo soprattutto certi che loro hanno tutto l’interesse – che difetta invece a molti di noi – di ripulirlo il più possibile.

Ma non è finita, perché mentre scorreva questo triste susseguirsi di eventi, già di per sé ansiogeno, il quotidiano amplificava i contorni dell’incertezza, quantificando la disoccupazione giovanile su percentuali disarmanti. Tale per cui un giovane ogni quattro è impossibilitato a trovarsi un impiego. E come se non bastasse quei fortunati che lo trovano in fretta perché hanno studiato in una delle università dell’Emilia-Romagna (sono dati presenti nel Rapporto AlmaLaurea 2023) si devono comunque accontentare di 1.100 euro al mese, se hanno alle spalle un percorso di studi triennale, e di 1.380 euro, se hanno terminato la magistrale.

Ecco perché comprendo che, a fronte di tali prospettive, monti la disillusione, il desiderio legittimo di salvaguardare il proprio privato e di difenderlo dalle invasioni del lavoro. Così come comprendo che qualcuno, dopo ponderato parallelismo, faccia la valigia e si lasci l’Italia alle spalle.

È un rischio che non ci possiamo permettere, sia perché siamo già congelati dall’inverno demografico, sia perché stiamo procedendo verso una transizione epocale e complicata. E gli unici occhi in grado di fornirci un orizzonte temporale più lungo sono quelli dei giovani. Perché – evidentemente – sono più vicini al domani.

L’editoriale fa parte del numero di novembre 2023 di Uomini e Trasporti: uno speciale monografico di 64 pagine interamente dedicato al tema del passaggio generazionale nelle aziende di autotrasporto.

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Daniele Di Ubaldo
Daniele Di Ubaldo
Direttore responsabile di Uomini e Trasporti

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