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EDITORIALE | Addio al diesel e a qualche camion

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Esiste una relazione biunivoca tra crescita economica ed emissione di sostanze inquinanti, tra il nostro modello di sviluppo e il peggioramento delle condizioni di vita del pianeta. Una relazione che adesso siamo costretti a rivedere. Tutto sta a capire come.

Questo concetto è da porre a premessa ogni qual volta si parla dell’adozione di nuove alimentazioni capaci di azzerare le emissioni. Senza di esso, infatti, l’agognata transizione energetica appare come una banale operazione di sostituzione con cui togliere dai veicoli un tipo di motore per far spazio a un altro che funziona prendendo energia non più dal gasolio, ma da altro (batterie, idrogeno, bio-LNG, ecc). Quando invece il cambio di alimentazione è soltanto il mezzo con cui raggiungere il fine di cambiare non soltanto il trasporto e la mobilità, ma anche il concetto stesso di civiltà. Insomma, qui non si tratta di togliere una pompa di gasolio per mettere al suo posto una colonnina di ricarica, qui c’è in ballo un cambio di mentalità, di relazioni geopolitiche, di approcci economici destinati ad avere ampie ripercussioni. Provo a elencarne sinteticamente alcune.

Prima conseguenza: se i veicoli non andranno più con i derivati del petrolio i nostri rapporti con chi esporta questa miscela di idrocarburi si relativizzeranno. «Ed era ora», verrebbe da dire! Per il bene dei paesi esportatori, perché quel privilegio di avere un sottosuolo ricco ha generato per loro più guerre che progresso (a meno di non voler considerare tale il poter ospitare un campionato del mondo di calcio). Ma anche per il nostro, viste le assurdità prodotte dalla dipendenza energetica: abbiamo importato per settant’anni il carburante per far viaggiare i veicoli da paesi che non concedevano alle donne nemmeno il diritto di prendere la patente di guida.

Seconda conseguenza: se le batterie a cui domani affideremo il compito di fare il pieno dei nostri veicoli sono prodotte in Europa soltanto nell’1% dei casi, perché il resto se lo spartiscono Cina (60%), Giappone (17) e Corea (15), rischiamo di cadere dalla padella nella brace. Se non fosse che il petrolio è una fortuna non condizionabile (o ce l’hai o non ce l’hai), mentre la batteria – a prescindere dalle materie prime con cui si realizza (destinate però a evolvere con ritmo accelerato) – può essere prodotta. Non a caso l’Europa vorrebbe innalzare la sua quota produttiva al 30% entro il 2030 e l’Italia si sta muovendo per fornire il proprio contributo. E anche questo è un processo su cui riflettere: abbia galoppato felici per anni nelle praterie della globalizzazione, in cui il luogo migliore per produrre era quello in cui i costi erano più bassi, e adesso prendiamo consapevolezza che esiste un perimetro tecnologico strategico, indelegabile, non terziarizzabile
Terza conseguenza, tutta appoggiata al trasporto: se considerate quanti veicoli sono attualmente in circolazione e immaginate di farli viaggiare tutti, domani mattina, con energia verde, capirete – anche sfogliando le pagine seguenti – che la sfida è improba. Un po’ perché una percentuale maggioritaria della nostra energia è prodotta in modo inquinante (su scala mondiale almeno, perché nell’UE – dati Ember – nel primo semestre 2020 le rinnovabili hanno generato il 40% dell’energia elettrica totale). Un po’ perché è impossibile pensare di far viaggiare tutto il circolante attuale con energia prodotta esclusivamente da sole, vento e poco altro.

Ne dovremmo dedurre che qualcuno ci sta prendendo in giro? Non proprio. Perché se si apre il PNRR si legge a chiare lettere che «l’Italia ha il numero di autovetture ogni mille abitanti più alto tra i principali Paesi europei e una delle flotte di autoveicoli più vecchie dell’Europa occidentale». E quindi si prospetta che tutti questi veicoli, compresi i camion, andrebbero messi da parte. Non sempre, però, per essere sostituiti. Perché, sempre a chiare lettere, si scrive che «la quota su rotaia del trasporto totale delle merci è inferiore alla media UE» (l’11,9%, nel 2019, rispetto al 17,6%) e che pertanto «l’aumento dell’uso della ferrovia a fini commerciali può contribuire alla decarbonizzazione».

È vero, la promessa epopea del ferro l’avete sentita mille volte. Stavolta, però, suona diversa. Sia perché ci sono soldi sufficienti a realizzare nuove e più efficienti infrastrutture, sia perché senza la ferrovia qualcuno o qualcosa resterà a piedi. Quando l’ho fatto notare a mio figlio – che a vent’anni non ha la patente e viaggia soltanto con mezzi pubblici – ha fatto spallucce. Ma sulla strada si odono tanti agitati mugugni.

Daniele Di Ubaldo
Daniele Di Ubaldo
Direttore responsabile di Uomini e Trasporti

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