Veicoli - logistica - professione

HomeProdottoAllestimentiVgroove: un camion chiamato desiderio

Vgroove: un camion chiamato desiderio

In principio c’erano Vrent, impegnata nel noleggio di veicoli industriali, e O’Groove, attiva nella produzione di film. Oggi, per iniziativa di Mariagiovanna ed Edoardo De Angelis, nasce Vgroove; storia di due cugini segnati da un destino comune che hanno visto nel camion un’espressione di accoglienza e calore da mettere a disposizione delle produzioni cinematografiche. Ce l’hanno raccontata. A modo loro

-

Lei è esile e un po’ minuta. Lui alto e un po’ imponente. È sufficiente osservarli per capire come Mariagiovanna ed Edoardo De Angelis siano una strana tipologia di cugini: complementari più che carnali. Tratto confermato dal percorso che hanno alle spalle. Lei ha lavorato per anni in ruoli apicali nel settore del noleggio dei veicoli industriali, all’interno di un gruppo sempre più articolato (nel senso che ha trovato di continuo nuove modalità e contesti in cui offrire i propri servizi), in cui il brand più noto è «Vrent». Lui è un regista dall’immaginario vivace in grado di trovare forma tramite modalità espressive sempre più articolate (oltre al cinema, si è misurato con la TV e l’opera lirica, firmando Natale in casa Cupiello per Rai 1 e un allestimento della Tosca per il San Carlo di Napoli), che ha maturato presto l’esigenza di gestire, con una squadra affiatata, anche il momento produttivo, dando vita a una società chiamata «O’Groove».
Oggi i due cugini De Angelis hanno deciso di sommare le esperienze, di creare cioè una realtà che faccia tesoro del bagaglio di competenze di entrambi. Così è nata, tramite una crasi, «Vgroove», società finalizzata a fornire alle produzioni cinematografiche tutto quanto serve per costruire un momento di supporto, di ospitalità e di piacevole rilassatezza a chi è impegnato nella lavorazione di un film. Capire attraverso quale strumento è facile: il camion. Meno facile comprendere in che modo siano arrivati a scegliere questo mezzo di trasporto. Per spiegarlo bisogna fare appello a motivazioni di varia natura, alcune private, altre frutto di esperienze professionali, altre ancora legate al mercato delle produzioni cinematografiche. Iniziamo con il piano più umano.

PERCHÉ IL CAMION

Partiamo con il dire che il camion per Edoardo è un simbolo di natura pratica e positiva, che possiede una duplice utilità, perché – nota – «porta cose e persone da un posto all’altro, ma è anche un luogo che, mentre trasporta, accoglie l’essere umano e le cose di cui si fa carico».
In più è un elemento simbolico presente nella memoria del suo vissuto più intimo, che non a caso si riflette, come in uno specchio, tramite un film. Quello preferito dal registra napoletano negli anni dell’infanzia – ricorda – era «Over the top, che ha per protagonista Sylvester Stallone nei panni di un camionista che va a riprendere il figlio abbondonato per farlo assistere a una gara di braccio di ferro. E io da piccolo ho sempre atteso che un giorno mio padre sarebbe arrivato a prendermi con il camion. E invece non è mai venuto. Così da grande, con mia cugina, che porta il mio stesso cognome e con cui condivido la storia della mia famiglia – fatta appunto di uomini che non ritornano – abbiamo deciso che quel camion lo avremmo fatto noi».
Niente di più normale, allora, che il camion concepito per simbolizzare questa valenza compensativa, debba esprimere tutto il contrario dell’abbandono. Ecco perché – puntualizza Edoardo – «il disegno scelto, curato da Carmine Guarino, lo scenografo dei miei film, voleva comunicare accoglienza e calore. E proprio per questo lo abbiamo realizzato con materiali, come il legno o il cuoio, in grado di trasmettere tali sensazioni».

UN CAMION CARICO… DI CINEMA

Ma non è tutto, perché il camion diventa anche lo strumento con cui ristabilire una sorta di coerenza tra un film e il contesto in cui lo si realizza. O, per dirla con le parole del regista, fare in modo «che i camion fossero parte della storia di un film e quindi della magia del cinema». In che modo Edoardo lo spiega così: «Spesso capita di trovare elementi all’interno di un set che non sono congrui all’atmosfera della storia, mentre invece tutto ciò che finisce nel fotogramma vive in precedenza anche fuori di esso. In tal senso l’esperienza di un lavoratore del cinema, messo in condizione di toccare materiali caldi, di sentirsi accolto degnamente in un luogo di lavoro, diventa un momento di un segmento magico inserito nella realtà che conduce alla realizzazione del film».
Mariagiovanna annuisce con la testa. Le piace l’aggettivo «magico». Lo trova – dice – «quello che meglio di altri esprime questa esperienza. Trovo magico allestire dei camion che non serviranno a portare rifiuti (sorride, alludendo al business principale di Vrent, ndr), ma a creare una realtà vicina e integrata al mondo del cinema. E poi è magico vedere come parte della mia storia o, meglio, della storia della mia famiglia trovi forma attraverso questi veicoli. È magico che in questo caos generato dall’esplosione della richiesta dei contenuti, siamo riusciti ad affidarci all’ordine di un manufatto originario, prototipico, unico e quindi insostituibile. E con tale contorno di magia è venuto quasi naturale realizzare qualcosa di bello, confortevole ed elegante, in grado di accarezzare le idee e il fisico delle persone».

IL RISTORO DOPO IL CIAK

Questo concetto ci porta nel secondo stadio delle motivazioni che giustificano la nascita di «Vgroove», quello che spiega quanto sia importante per gli attori e per le altre maestranze impegnate nella realizzazione di un film poter ricevere le carezze a cui fa riferimento Mariagiovanna. Edoardo lo chiarisce facendo riferimento alla sua esperienza professionale e più precisamente al momento in cui, nel corso della lavorazione di uno dei suoi ultimi film, Il vizio della speranza, «tra il fango e un fiume inquinato, ho pensato che io potevo tranquillamente riposare in piedi, come i cavalli, ma le persone che in quel momento stavano lavorando con me, mettendo quasi a rischio la loro vita, meritassero ogni giorno, alla fine di quella avventura, un luogo in cui ristorarsi». Ed è lì che il desiderio dei due cugini di unire le rispettive storie professionali ha trovato una precisa categoria di persone a cui fornire accoglienza.
Una categoria allargata in quanto l’offerta di Vgroove, partita oggi con una dozzina di hospitality di varie dimensioni allestite da un’azienda specializzata in questo tipo di lavorazioni, la AstaCar di Bertinoro (FC), e agganciate a veicoli DAF di diversi segmenti (dagli LF agli XF), tutti in rigorosa livrea nera con marchio in oro, non pensa soltanto agli attori, ma va incontro ai bisogni di tutti coloro che esprimono professionalità al servizio della macchina da presa. Esemplare l’accoglienza dedicata alla sartoria o al «trucco e parrucco», costruite muovendo proprio dalle esigenze specifiche di chi lavora nel settore, studiandone i movimenti, gli spazi, i tempi di impiego. Insomma, un vestito caldo, ma pure ritagliato e cucito su misura.

LUI, LEI E LE DONNE

Tante volte parlando del sodalizio stabilito in Vgroove, Mariagiovanna ed Edoardo fanno riferimento alla loro storia. Aleggia – in maniera nemmeno troppo celata – una sorta di destino comune in cui due fratelli, interpretati dai loro genitori, occupano una parte lasciata vuota. Un destino in parte presente nello sguardo con cui si osservano reciprocamente. Lei dice di lui che «è un artista geniale, una persona di grande cuore ed enorme sensibilità». Lui dice di lei che «è una donna sanguigna, ma un po’ come lo sono le statue greche, che sotto un’apparente calma e serenità nascondono un mare in burrasca». E tale tratto caratteriale è interpretato da lui come «una caratteristica che attiene al nostro DNA», ma anche come elemento degno di «stima, di ammirazione e di affidabilità». Perché – argomenta – «diffido da ciò che è sempre in burrasca, così come da ciò che è solo calmo. Trovo l’equilibrio precario tra due elementi l’aspetto più affascinante di un essere umano. E in fondo anche del mondo».
Un retroterra inquieto a cui fa riferimento anche lei quando definisce lui «un vulcano, un fiume in piena», ma al tempo stesso un animo dotato della «rara capacità di percepire l’animo femminile in modo speciale, di cogliere di una donna ciò che difficilmente un uomo è in grado di cogliere». Forse – conclude – «perché è stato allevato da donne…».
Lui conferma, ma in parte nega. Conferma di essere stato tirato su da tre donne – «mia madre, mia nonna e mia zia» – e racconta di «aver conosciuto i loro pensieri più intimi, i segreti più inconfessabili, i discorsi più familiari e irripetibili». Confessa che, «nella mia vita, prima di fare gruppo con i boy scout o con la squadra di pallanuoto, mi sono sentito gruppo con le donne e per questo mi viene naturale raccontare storie che abbiano donne per protagoniste». Eppure, puntualizza, «più conosco le donne e più non le capisco. E spesso mi soffermo a contemplarne il mistero senza pretendere di decifrarlo». Quindi, dopo aver negato che possa esistere una supremazia di un genere sull’altro e aver sottolineato che esistono tra i due solo differenze interiori in quando riflesso di una diversità esteriore, riconosce alla donna un primato assoluto: quello di generare la natura umana. E sottolinea come la prima forma di relazione che un essere umano stabilisce sia per forza di cose con una donna. «E tale relazione – dice facendosi serio – è la più importante, perché imprime un marchio a un’intera esistenza: se è felice ci saranno ripercussioni felici, se è infelice ci saranno ripercussioni infelici, a volte irrecuperabili. E comunque tutta l’esistenza dell’essere umano di genere maschile è rapportata alla relazione con la donna e a volte ne è dipendente. Al punto che qualcuno cerca, fino in età avanzata, l’approvazione di una mamma dietro ogni cosa che fa».

ENTRA UNA DONNA E FINISCE IL CAMERATISMO

Questo primato umano delle donne spesso perde terreno in contesti lavorativi ed Edoardo riscontra come molte incontrino difficoltà a trovare il proprio spazio. Poi, guarda Mariagiovanna e allarga un sorriso compiaciuto: «Beh, Vgroove va in direzione opposta perché è una società con tanti uomini, ma con a capo una donna». Mariagiovanna, a questo punto in veste di amministratrice delegata della società, prima ribatte che «personalmente non mi sono mai sentita in una posizione inferiore a un uomo» e poi aggiunge che «l’unica difficoltà reale che una donna prova si manifesta quando diventa madre. Perché a quel punto se lavora è costretta a organizzarsi. Ma il più delle volte lo fa in maniera virtuosa, mettendo in moto una sorta di vortice economico che genera altri posti di lavoro. Il supporto che cerca si trasforma, come in una macchina a catena, in occupazione per qualcun altro».
Un beneficio a cui subito ne somma un altro: quello che si manifesta, secondo Mariagiovanna, nel momento in cui una presenza femminile entra in un mondo declinato tutto al maschile. La ragione è presto detta: «Aiuta a spezzare il cameratismo e le conseguenze negative che determina. E questo vale per entrambi i generi, perché anche una presenza maschile favorisce un’evoluzione in un ambiente femminile. Seppure le donne tendono a fare meno squadra, giacché sono abituate a dover essere più competitive».
Stavolta è Edoardo ad annuire per sottolineare che «quando si ha un universo lavorativo completamente maschile o femminile si finisce con il creare un linguaggio autoreferenziale. E tutto ciò che è autoreferenziale finisce per impoverirsi».

PACCAR, MUSONI DA CINEMA

Eccetto i furgoni, tutti i veicoli chiamati a trainare le hospitality di Vgroove sono DAF, marchio del gruppo Paccar non nuovo a legami con il mondo del cinema. «Pensate che il primo film di Steven Spielberg – ricorda l’amministratore delegato di DAF Veicoli Industriali, Paolo Starace – il notissimo Duel (1971), contribuì a rendere noto al grande pubblico il Peterbuilt 281, che ricopriva un ruolo quasi da coprotagonista. Ma altri veicoli del gruppo sono apparsi in Trappola di cristallo (1988), Terminator 2 (1991), Bad Boys (1995), Fight Club (1999) e in tanti altri film, più in veste di comparsa». «Siamo fieri quindi – aggiunge facendo riferimento all’esperienza Vgroove – di continuare questa tradizione, sebbene in questo caso DAF rimanga dietro le quinte per supportare la produzione cinematografica. Grazie alla loro versatilità, affidabilità e immagine, si sposano molto bene con questo settore. Anche perché DAF è tecnologia, non fantascienza».

L’ITALIA COME SET: TUTTI LA VOGLIONO

Rimane l’ultimo aspetto da chiarire. Vgroove è una società che nasce come desiderio di rendere esponenziali le esperienze di due cugini, ma alla fine, da un punto di vista di mercato, esprime l’offerta di un servizio che risponde a una domanda in crescita. A spingerla in alto è il fatto che l’Italia torna a essere la scenografia naturale di tanti film. Di molti di più di quanto ne accoglieva un tempo, prima cioè che paradossalmente la fruizione filmica fosse calamitata dalle piattaforme di streaming. Perché da qualche anno per queste società (Netflix, Amazon Video, Apple Tv, Disney Channel, ecc.) è scattato, per normativa comunitaria, l’obbligo di produrre nell’Unione europea il 30% dei contenuti proposti in catalogo.
In più, tra le forme di sostegno messe in campo dal nostro paese per far fronte alle difficoltà generate dalla pandemia c’è quella di innalzare dal 30 al 40% il credito di imposta concesso alle società di produzione che scelgono l’Italia come set. Misura concepita preoccupandosi dei 173 mila posti di lavoro connessi all’audiovisivo tra dipendenti diretti e filiere collegate.
Tutto questo per dire che le produzioni cinematografiche ambientate in Italia sono diventate già oggi più numerose e domani, con ogni probabilità, lo diventeranno ancora di più. E parallelamente crescerà la domanda di servizi espressa da tali produzioni. Quelli di Vgroove sono perfettamente riconoscibili, in quanto si posizionano su un segmento di mercato di fascia alta, «costituito – come dice Mariagiovanna – da produzioni americane o da quelle che esprimono comunque esigenze più elevate». Insomma, l’idea è di dare tanto a chi chiede tanto e che, forse proprio per questo, è maggiormente in grado di apprezzare l’espressione di una somma complementare. Quella in cui «1+1 diventa 3».

Daniele Di Ubaldo
Daniele Di Ubaldo
Direttore responsabile di Uomini e Trasporti

close-link